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A cosa (ci) serve la Somalia?

Dopo anni di successi, lo state building in Somalia rischia una battuta d’arresto. Il nodo irrisolto delle elezioni presidenziali è cruciale. Ma crisi regionali e diffidenze interne bloccano il paese. Europa e Italia prendano nota: se non si salva la Somalia si perde il Corno d’Africa.

Dal 2012, la Somalia ha cominciato un processo di soluzione di molti dei suoi problemi interni. Le missioni congiunte della NATO e dell’UE avevano debellato il fenomeno della pirateria marittima, le forze dell’Unione Africana avevano liberato le città chiave della Somalia centrale-meridionale da Al-Shabaab, partner regionali (Turchia, Qatar ed EAU) e comunità internazionale finanziavano i processi di state building e l’addestramento delle forze armate, e, cosa più importante, la nascita di stati federali sanciva l’implementazione di un quadro politico accettato dalle principali fazioni politico-militari del paese. In sintesi, la Somalia tra il 2012 ed il 2020 manifestava ancora delle crisi sistemiche, ma all’interno di un quadro in netto miglioramento ad oggi alcune di quelle previsioni sembrano essersi rilevate ottimistiche.

Sul piano securitario, la guerra contro Al-Shabaab, la branca locale di Al-Qaeda nata come braccio armato dell’Unione delle Corti Islamiche somale tra il 2004 e il 2006, è diventata statica: il gruppo non ha sicuramente la forza e la legittimità per riconquistare il paese come fece a suo tempo l’Unione delle Corti Islamiche, ma lo stesso vale per le forze del Governo Federale a loro volta incapaci di ribaltare l’inerzia del conflitto a loro favore. In questo contesto, il contrasto al gruppo qaidista è influenzato anche dal quadro geopolitico regionale. L’Etiopia ha ridispiegato parte delle sue forze in patria per far fronte al conflitto del Tigrai, il Kenya non nasconde una certa insofferenza rispetto al protrarsi del dispiegamento delle sue forze armate nel sud della Somalia, sentimento sempre più latente man mano che ci si avvicina alle prossime elezioni presidenziali previste per l’agosto del 2022 che sanciranno la fine dell’era di Uhuru Kenyatta dopo due mandati alla guida del paese. Un passaggio storico, che potrebbe avere ripercussioni rilevanti sugli equilibri regionali e continentali. Già prima del ritiro della NATO dall’Afghanistan, aveva ripreso quota la possibilità di un processo di riconciliazione tra Al-Shabaab e il Governo Federale sotto l’egida del Qatar, che da più di un decennio tenta una mediazione, considerate anche le sue relazioni come principale finanziatore del budget del Governo Federale. Dopo aver subito una battuta d’arresto dovuta alle tensioni tra Doha e il resto dei paesi del Golfo, l’eventualità di un accordo con Al-Shabaab ha ripreso quota in seguito alla riconciliazione tra Qatar e il resto dei paesi del Golfo. Sebbene il processo di pace e di normalizzazione di Al-Shabaab in Somalia rappresenti un’opzione possibile, la ricostruzione dello stato somalo si è compiuta grazie alla formazione di stati federali fortemente autonomi che rischierebbero di essere erosi dall’entrata nel governo di Al-Shabaab. Ragione per cui i partner internazionali che hanno investito massicciamente nel processo di state building somalo attendono rassicurazioni circa elezioni e riconciliazione tra Mogadiscio e stati federali prima di un'eventuale riconciliazione con Al-Shabaab.

Nello specifico, la preoccupazione di molti è quella di una possibile radicalizzazione islamica del quadro politico somalo, così come un possibile spillover di queste dinamiche in Etiopia e Kenya, entrambi paesi che ospitano una nutrita comunità di musulmani di origine somala. A complicare ulteriormente questo movimento in due tempi (riconciliazione con Al-Shabaab e rassicurazione dei pesi massimi del Corno d’Africa) si aggiungono le diverse crisi che in questo momento caratterizzano l’area specialmente per quanto concerne la guerra civile in Etiopia, ancora molto lontana dalla soluzione. Il quadro securitario in Somalia è reso particolarmente complesso anche dall’intrecciarsi della crisi militare con alcune emergenze umanitarie. Da una parte, gli effetti del cambiamento climatico e i problemi della logistica delle forniture alimentari, dovuti al conflitto con Al-Shabaab hanno prodotto una siccità e una carestia di portata rilevante, mettendo a rischio la sicurezza alimentare dei somali con i relativi effetti politici destabilizzanti. Dall’altra, la Somalia si trova racchiusa tra due fuochi con la destabilizzazione del Corno d’Africa ad Ovest e la guerra civile dello Yemen ad Est, che collocano il paese all’interno di due flussi migratori importanti, ponendo in grave difficoltà le autorità federali che mancano delle adeguate risorse finanziarie e strutturali per fronteggiare questo fenomeno.

Al netto dell’importanza della guerra contro Al-Shabaab e delle relazioni tra la Somalia e i partner regionali, il futuro del paese non è mai stato così tanto legato alle sue dinamiche politiche interne. Nel tentativo di accelerare il processo di ricostruzione dello stato, la presidenza di Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmaajo” ha impresso una svolta centralista all’azione di governo che si è scontrata con le caratteristiche intrinseche della politica e della configurazione federale del potere in Somalia. Sono esemplificative al riguardo le tensioni legate alle prossime elezioni presidenziali che al momento rappresentano il più rilevante motivo di discordia all’interno del paese. Attualmente la Somalia ha portato a termine le elezioni per il Senato e dovrebbe portare a termine quelle per la Camera del Popolo entro la fine dell’anno. Le elezioni parlamentari hanno mostrato segnali incoraggianti: in primo luogo, da un punto di vista strettamente tecnico, il sistema elettorale costituito in base alle rappresentanze claniche continua ad essere condiviso dai principali gruppi di interesse della nazione; al tempo stesso la rappresentanza parlamentare sta diventando maggiormente variegata (al senato sono state elette più donne di sempre). Tuttavia, gli ultimi slittamenti del calendario elettorale e le tensioni tra le parti rischiano non solo di mettere in pericolo la legittimità del processo elettorale, ma anche di compromettere il lavoro di state building portato avanti dalle autorità federali e dai partner della Somalia, minando così la credibilità delle istituzioni. Nel peggiore degli scenari, il fallimento da parte delle élite politiche del paese nel risolvere la crisi elettorale rischierebbe di esacerbare le divisioni tra governo e opposizione che potrebbero articolarsi lungo le linee claniche, compromettendo il processo di state building a livello sistemico.

L’attuale fase politica in Somalia è quanto mai cruciale sul piano geopolitico e delicata su quello istituzionale e i principali partner del paese dovranno monitorare attentamente questo passaggio, se possibile con maggior attenzione rispetto al passato. Il Corno d’Africa, infatti, vive un momento di particolare delicatezza tra conflitti e transizioni che si estendono dall’Etiopia, al Sudan e al Kenya che non mancheranno di produrre effetti anche all’interno della Somalia. In questo contesto, diventa ancora più importante garantire un processo di unificazione interno fra le diverse anime del paese che necessariamente passerà per le prossime elezioni presidenziali, poiché il governo federale somalo rappresenta un argine a una serie di potenziali crisi sistemiche che si ripercuoterebbero anche sull’Europa e i suoi partner. È importante sottolineare come questo processo di pacificazione debba essere adeguatamente supportato anche dal punto di vista finanziario, un ulteriore aspetto, quest’ultimo, che rischia di essere trascurato dai partner internazionali a favore di nuove priorità strategiche sia in Sahel che nel Corno d’Africa, dove la crisi etiope concentra le preoccupazioni maggiori. In sintesi, mai come in questo momento storico la combinazione tra elezioni in Somalia e stabilizzazione della regione possono avere conseguenze regionali ed internazionali di prim’ordine.

Il Corno d’Africa ha bisogno della Somalia, la Somalia dei somali, l’Europa e l’Italia di entrambi.

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