Cosa pensa la Cina della guerra subita dall’Iran
Pechino affronta la sicurezza con pragmatismo: da un lato la narrazione anti-occidentale, dall’altro evitare coinvolgimenti negativi. Il punto di Emanuele Rossi

La risposta dei BRICS all’attacco subito dall’Iran per opera di Israele prima e Stati Uniti poi rappresenta un punto di partenza utile per mettere in risalto come la Cina, attore che cerca di usare il blocco per forzare alcuni interessi di influenza globale, abbia scelto una linea ambigua, distaccata, protetta. Al vertice di Rio de Janeiro del 6 luglio, Pechino ha guidato (con la mano di Mosca) una dichiarazione congiunta che ha condannato con parole dure i bombardamenti americani e israeliani come una “palese violazione del diritto internazionale” ed espresso pieno sostegno alla causa palestinese.
Lo stesso documento è rimasto in silenzio sulla guerra in Ucraina, salvo criticare gli attacchi ucraini sul suolo russo, mostrando così una solidarietà selettiva e strategica. L’Iran, da poco entrato nei BRICS, ha beneficiato di una solidarietà verbale che riflette la convergenza retorica anti-occidentale tra i membri del gruppo. Tuttavia, il vero punto critico riguarda proprio l’atteggiamento di Pechino: mentre promuove un linguaggio di difesa della sovranità e dell’integrità territoriale, resta distante sul piano del coinvolgimento e ancor più su quello operativo. È un’ulteriore dimostrazione del fatto che la Cina considera la propria “partnership strategica” con l’Iran come strumentale e limitata, parte di una narrativa multipolare utile ai propri interessi e chiaramente non vincolante.
Il comportamento di Pechino durante la cosiddetta “guerra dei dodici giorni” conferma questa prudente ambivalenza. La Cina aveva già condannato formalmente l’attacco americano, evocando la Carta delle Nazioni Unite, e criticato in precedenza l’intervento israeliano. Tuttavia, al di là della retorica, non ha fornito alcun tipo di supporto — né diplomatico fattuale, né tantomeno materiale — a Teheran. Anzi, ha mantenuto una posizione di basso profilo, dettata da interessi convergenti ma non coincidenti con quelli iraniani.
Pechino ha come interesse prioritario la protezione della propria rete di approvvigionamento energetico, che dipende in larga parte da attori rivali dell’Iran come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Sia Riad che Abu Dhabi hanno avviato dei processi di normalizzazione con Teheran — i sauditi hanno persino scelto Pechino come sede dell’accordo per la riapertura delle relazioni diplomatiche nel 2023 — ma continuano a guardare alla Repubblica islamica con scetticismo. Non hanno sostenuto l’intervento israeliano (e americano), temendo che un’escalation regionale mettesse a rischio le rotte critiche del petrolio. Tuttavia, l’idea di un Iran pubblicamente indebolito — e, nello specifico, di un programma nucleare arretrato di qualche anno a seguito dei colpi israelo-americani — non dispiace affatto alle capitali sunnite del Golfo. La Cina ha ben chiaro questo sentimento nei corridoi del potere regionale e, anche per questa ragione, ha scelto di muoversi da osservatrice esterna.
Da tale posizione è anche più facile cercare di preservare il proprio ruolo di attore neutrale in Medio Oriente. Coinvolgersi in modo palese a fianco di Teheran avrebbe compromesso questa strategia multilivello. Dunque, meglio sacrificare in parte la relazione con un junior partner piuttosto che rischiare di intaccare il disegno più ampio.
Anche perché Pechino mantiene un rapporto strumentale con l’Iran: ne acquista petrolio (aggirando le sanzioni statunitensi e rendendosi indispensabile per i traffici iraniani), gli offre copertura diplomatica ma senza slanci strategici, teme che il programma nucleare civile possa trasformarsi in uno militare — dotando l’Iran di una deterrenza atomica che un junior partner non può permettersi — e, soprattutto, diffida profondamente del regime teocratico.
La leadership cinese percepisce l’ideologia islamica rivoluzionaria come destabilizzante, specialmente per le province musulmane all’interno della Repubblica Popolare (a maggioranza sunnita, ma che potrebbero trarre ispirazione da altre esperienze radicali). A dispetto della retorica solidale e dell’apparente convergenza strategica, la postura della Cina nei confronti dell’Iran è dunque segnata da profonde ambiguità, che riflettono una logica di interesse tattico più che un autentico allineamento geopolitico.
La guerra ha evidenziato tutte queste contraddizioni, così come ha mostrato che il cosiddetto “Axis of Upheaval” (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord — il gruppo CRINK) è un raggruppamento opportunistico, funzionale al contrasto del modello occidentale, ma composto da attori che seguono agende autonome e non sono disposti a modificarle per aiutarsi reciprocamente.
In questo senso, la vicenda dell’attacco di Israele e Stati Uniti all’Iran ha anche messo in luce i limiti strutturali della Cina come potenza globale. Pechino ha scelto di non intervenire politicamente, militarmente o diplomaticamente in modo significativo — nemmeno a sostegno di un partner come l’Iran. La proposta di cessate il fuoco avanzata da Xi Jinping è rimasta inascoltata perché priva di strumenti concreti. La Cina è forse riuscita a influenzare Teheran nel non reagire ulteriormente all’azione americana, sebbene sia anche possibile che sia stato lo stesso Iran a scegliere la resilienza interna, messo alle corde da una dimostrazione di sostanziale inferiorità operativa e persuaso che una reazione ulteriore avrebbe comportato danni ancora più gravi.
Il fatto che, pochi giorni dopo la tregua, il ministro della Difesa iraniano si sia recato a Qingdao per partecipare a una riunione della Shanghai Cooperation Organization ha avuto un valore più simbolico che sostanziale. La stretta di mano con l’omologo cinese è stata forzata dalla narrazione anti-occidentale da cui Teheran non può svincolarsi, e su cui Pechino fa leva. Il ringraziamento per l’aiuto ricevuto è suonato quasi ironico, se non letto attraverso la lente della propaganda — la stessa che porta la leadership iraniana a raccontare la guerra dei dodici giorni come un successo contro l’odiato Israele.
Per la Cina, l’interesse ad evitare il coinvolgimento militare nel Medio Oriente si lega a una combinazione di indisponibilità politica e limiti logistici. Preferisce che siano altri — soprattutto gli Stati Uniti — ad assorbire i costi della stabilizzazione regionale. In questo senso, Pechino beneficia indirettamente del ritorno americano nella geopolitica mediorientale: un fenomeno che, in passato, le ha permesso di rafforzare la propria influenza in Asia senza pressioni dirette.
L’Iran resta per la Cina un partner utile ma sacrificabile, ben meno importante di dossier regionali irrisolti come il Myanmar o l’influenza in Cambogia. Le promesse di investimento da 400 miliardi di dollari si sono tradotte in una presenza economica minima. Le imprese cinesi evitano di esporsi per timore delle sanzioni, dell’instabilità cronica e di un contesto normativo rigido e opaco. Lo stesso petrolio iraniano viene acquistato a prezzi fortemente scontati. Il risultato è una relazione profondamente asimmetrica, in cui Pechino trae vantaggio senza assumersi responsabilità.
È una logica che si riflette anche nella triangolazione con Mosca: la comunanza narrativa sull’ordine multipolare non corrisponde a un reale coordinamento strategico. Pechino mantiene sempre la possibilità di modulare il proprio impegno in funzione dei propri interessi globali più rilevanti. L’equilibrio tra retorica anti-occidentale, cautela diplomatica e interessi energetici spinge Pechino a una strategia attendista e opportunistica, nella quale la partnership con l’Iran è solo uno strumento – non il fine – della sua proiezione internazionale.
Una potenza economica globale, ma ancora una potenza geopolitica selettiva.