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Gaza e il Trump Plan: un equilibrio complesso tra tregua, disarmo e governance

Le prospettive, e le possibili incognite, del piano di pace a Gaza. Il punto di vista di Daniele Ruvinetti

Washington si trova di fronte a una crescente difficoltà nell’imporre il rispetto del Trump 20 Point Plan per Gaza, il più importante successo diplomatico finora raggiunto da Donald Trump durante il suo secondo mandato, avendo permesso di fermare la guerra tra Israele e Hamas, esplosa oltre due anni fa – dopo l’attentato terroristico del 7 ottobre 2023. L’iniziativa, pensata per arrivare a una tregua da cui avviare un processo di stabilizzazione multilivello, si sta rivelando complessa, a causa della sovrapposizione di problematiche interne ed esterne, realizzazione, almeno parziale, delle preoccupazioni e delle criticità che avevano sin dall’inizio accompagnato il piano. L’obiettivo era duplice: ottenere e mantenere il cessate il fuoco, e poi costruire le condizioni politiche e di sicurezza per una nuova fase di governance. Ma la realtà sul terreno e la frammentazione politica delle parti coinvolte stanno minando entrambi i pilastri del progetto.

Il primo ostacolo è emerso a Rafah, dove al confine israelo-egiziano la vicenda dei miliziani di Hamas intrappolati nei tunnel oltre la linea di separazione con Israele potrebbe rappresentare un modello di disarmo pacifico, che può servire come vettore per il difficilissimo disarmo generale della fazione combattente dell'organizzazione palestinese. Washington immagina di trasformare il caso in un laboratorio politico: i combattenti potrebbero consegnare le armi a una terza parte – Egitto, Qatar o Turchia – ottenendo in cambio l’amnistia e il trasferimento in aree sotto controllo palestinese. Israele, però, per ora respinge con fermezza l’ipotesi, giudicandola incompatibile con la giustizia per le vittime e pericolosa sul piano politico interno, nonché securitario. La destra israeliana, che già considera la tregua un compromesso eccessivo, ha interpretato l’offerta americana come un tentativo di legittimare il movimento islamista – concetto ideologicamente irricevibile. Ne deriva una paralisi che rende impossibile utilizzare Rafah come “proof of concept” per il disarmo di Hamas.

Parallelamente, il piano di Washington incontra resistenze sul versante della governance di transizione. La questione si intreccia: uno dei problemi è proprio il fatto che Hamas conserva una capacità di controllo e coercizione sul territorio che nessuna forza esterna può ignorare, e allo stesso tempo, che il governo israeliano rifiuta qualunque forma di rappresentanza diretta o indiretta del movimento islamista nella futura amministrazione di Gaza. Nel frattempo, i partner arabi – Egitto e Qatar in testa – tentano di mediare per evitare un vuoto di potere che rischierebbe di riaccendere il conflitto. Gli Stati Uniti vorrebbero affidare la gestione post-bellica a un comitato tecnico palestinese, con un coinvolgimento graduale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma il percorso è costellato di ostacoli politici e pratici.

In questo scenario, anche la costruzione di una forza internazionale di stabilizzazione (ISF) si è trasformata in un campo minato diplomatico. L’obiettivo di una missione con mandato biennale, approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sostenuta da contributi arabi e occidentali, resta lontano. Israele insiste nel mantenere un controllo di sicurezza diretto finché Hamas non sarà completamente disarmato – ipotesi, questa, che abbiamo già visto come complessa (e remota), mentre molti Paesi che avevano manifestato disponibilità a partecipare, dall’Egitto all’Indonesia, fino alla Turchia, temono di essere trascinati in uno scenario di contro-insorgenza se i miliziani rifiutassero di deporre le armi. Senza un mandato chiaro, la forza rischia di rimanere un’entità simbolica, priva di efficacia operativa.

Le difficoltà non si limitano alla dimensione diretta. L’intera architettura del piano è condizionata dalle dinamiche politiche interne israeliane, dove il premier Benjamin Netanyahu utilizza la gestione del conflitto anche come strumento di sopravvivenza elettorale. Con la campagna per il voto del 2026 già in movimento, ogni concessione alla diplomazia internazionale viene letta come un cedimento. La possibilità che Netanyahu possa sfruttare la guerra – o la minaccia di riaprirla – per rafforzare la propria base politica rende ancora più complicato l’impegno degli Stati Uniti per il mantenimento della tregua. L’amministrazione Trump si trova così in una posizione ambigua: da un lato difende il principio del “no plan B”, dall’altro deve gestire un alleato che appare disposto a riaprire il conflitto per ragioni interne.

Le tensioni si riflettono anche nel rapporto con i mediatori regionali. Il Cairo, impegnato a contenere la pressione lungo il confine, tenta di promuovere un consenso palestinese che includa almeno marginalmente Hamas, ma come detto tale impostazione è inaccettabile per Israele. Doha, pur mantenendo contatti con la leadership del movimento islamista, non vuole assumersi la responsabilità diretta di una mediazione destinata a fallire, mentre la Giordania mantiene una posizione di cauta attesa, interessata più alla stabilità complessiva che ai dettagli del piano. La Turchia, che ha fornito un contributo di intelligence ai negoziati, rimane un interlocutore controverso: la sua partecipazione alla forza internazionale viene vista da Israele come una minaccia strategica e da molti Paesi arabi come un tentativo di accrescere la propria influenza.

In parallelo, gli Stati Uniti hanno creato a Tel Aviv un Civil-Military Coordination Center (CMCC), una struttura che dovrebbe monitorare la tregua, il flusso degli aiuti e coordinare l’avvio dell’ISF. Pur rappresentando un passo avanti nella gestione tecnico-operativa del processo, il CMCC non è in grado di compensare la mancanza di un consenso politico stabile. Gli incidenti degli ultimi giorni – dagli attacchi israeliani contro cellule della Jihad islamica ai blocchi intermittenti degli aiuti umanitari – mostrano quanto sia fragile la catena di comando sul campo e quanto labile la fiducia reciproca tra le parti.

Tutto questo si inserisce in un quadro regionale già carico di tensioni. Il rifiuto di Hezbollah di avviare un qualsiasi dialogo diretto con Israele e i nuovi scontri lungo il confine libanese confermano che il conflitto di Gaza resta il baricentro di un equilibrio instabile. Senza progressi concreti nella Striscia, anche i fronti siriano e libanese rischiano di riaccendersi, in un effetto domino che potrebbe travolgere la tregua.

L’impressione complessiva è che il Trump Plan, dopo la legittima ambizione diplomatica, si trovi alle prese ora con il realismo politico. L’idea di una Gaza demilitarizzata, amministrata da un’autorità palestinese riformata e protetta da una forza internazionale, rimane teoricamente valida e sostanzialmente unica. Tuttavia, il terreno su cui dovrebbe attecchire è profondamente eroso. Hamas non appare disposto al disarmo, Israele non è pronto a cedere il controllo militare, e gli attori regionali non vogliono farsi carico di un processo senza garanzie. In questo contesto, la politica americana è consapevole del rischio di restare intrappolata: l’urgenza di mostrare risultati si scontra con l’impossibilità di imporre rapidamente la propria visione. E il dubbio è se Trump intenderà mettere ulteriore pressione diplomatica davanti a questo coacervo di problematiche o se, nel medio periodo, sceglierà in qualche modo di allentare il coinvolgimento.

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