Elezioni in Argentina: la vittoria di Milei
La vittoria di Milei alle elezioni di Mid Term in Argentina. Il punto di Stefano Marroni
“Per la politica argentina, due anni sono un’eternità”, ha scritto El Pais, invitando nel fine settimana a non scommettere sull’esito delle elezioni presidenziali che nel 2027 potrebbero schiudere a Javier Milei le porte di un secondo mandato alla Casa Rosada o chiudere per sempre l’esperienza del “presidente con la motosega”. Difficile dargli torto: solo a metà settembre, l’ondata che nella provincia di Buenos Aires , la più popolare del paese, ha sepolto con uno scarto di oltre un milione di voti i candidati dell’ex opinionista balzato in un lampo alla guida dell’Argentina sembrava autorizzare per lui la previsione di un viaggio senza ritorno, in balia di una crisi che aveva visto il peso precipitare, un suo candidato di punta costretto a farsi da parte per legami con il narcotraffico e persino Karina Milei , la “sorellissima” del presidente, al centro di una inchiesta per corruzione. E invece il 25 di ottobre le elezioni di mid term hanno regalato a Milei una vittoria schiacciante, regalando al suo La Libertad Avanza oltre il 40 per cento dei voti: una vittoria del tutto inattesa nelle proporzioni, con il passaggio da 37 a 101 deputati e da sei a 20 senatori, e LLA primo partito in 18 province su 24 incluse tutte quelle più grandi, da Buenos Aires a Santa Fe, da Cordoba a Mendoza a Entre Rìos. “Il popolo argentino – ha commentato a caldo il presidente – ha deciso di lasciarsi alle spalle cento anni di decadenza e di costruire una grande Argentina”.
Ancora una volta, i sondaggisti non se ne erano accorti. Avevano profetizzato un testa a testa tra Milei e Fuerza Patria - il nuovo nome in salsa berlusconiana assunto dai peronisti orfani di Cristina Kirchner - tra il 34 e il 37 per cento, che avrebbe consegnato all’Argentina un parlamento in cui i deputati peronisti avrebbero potuto continuare a porre il veto sulle maggiori decisioni della Casa Rosada, o costringere il presidente a mercanteggiare faticosamente con i centristi di Provincias Unidas o aumentare il prezzo per il sostegno dell’ex presidente Mauricio Macri, che si accinge comunque a passare all’incasso, chiedendo un pattuglia di ministri per sommare i suoi voti a quelli di LLA: “Milei ha il mio telefono”, ha detto subito dopo il voto l’imprenditore di origine calabrese. “Sono a disposizione per garantire stabilità e cambiamento”.
Ma era ancora di fronte allo scenario di un Milei in ginocchio, che Donald Trump ha fatto piombare le novità in arrivo da Washington e che certamente – sottolineano tutti gli osservatori – a sei giorni dal voto hanno molto contribuito a cambiare la partita: un bail out per venti miliardi di dollari del Tesoro americano e un prestito per altri venti miliardi che Scott Bessent ha concordato personalmente con le maggior banche degli Stati Uniti, con in prima fila JP Morgan Chase, Bank of America, Goldman Sachs e Citigroup. “Faremo tutto quel che è necessario per non avere un altro paese fallito in Sud America”, aveva preannunciato il segretario al Tesoro. E ribattendo a chi anche tra i MAGA ha sparato a zero contro l’idea di prestare denaro al paese che dopo i dazi sta sostituendo il Midwest nelle forniture di soia alla Cina (ed è il più indebitato con il Fondo Monetario) ha detto che “preferisco fare un bail out che sparare sui battelli carichi di carichi di droga, come siamo costretti a fare nei Caraibi…”. Fino a che è stato Trump in persona a mettere i piedi nel piatto, ricevendo Milei alla Casa Binaca alla vigilia delle elezioni: “Sia chiaro: se tu perdi, non saremo così generosi con l’Argentina…”.
L’effetto nelle urne è stato tangibile, la pistola sul comodino ha spinto senz’altro una parte del paese al soccorso di Milei. Resta da vedere se i conti argentini, malati cronici da un cinquantennio, riusciranno a risalire la china, garantendo a Milei la stesa soddisfazione che i tagli alla spesa dei primi due anni di presidenza – al prezzo di un doloroso peggioramento della disoccupazione - gli hanno garantito sul fronte della lotta all’inflazione. “L’Argentina - ha scritto sul suo sito il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman – sta vivendo una classica crisi monetaria: i capitali fuggono dal paese perché gli investitori temono un collasso del peso, e questa fuga di capitali fa ulteriormente abbassare il valore della moneta”. Ma dal punto di vista politico, almeno appunto fino alle elezioni presidenziali del 2027, dopo questa boccata d’ossigeno il presidente sembra avere davanti una strada in discesa. Tutti i sondaggi segnalano che i giovani argentini disgustati dalla “casta” hanno votato in massa per lui anche a Buenos Aires, tradizionale roccaforte peronista. E la crisi del centrosinistra argentino – che ha anche il piombo nelle ali di una ex presidente carismatica agli arresti domiciliari per corruzione – lo favorisce in un clima così fortemente polarizzato: “I peronisti – spiega il politologo Juan Negri, dell’università Torcuato Di Tella – non rappresentano una opposizione che guarda avanti: sono solo capaci di dire che tutto quel che fa Milei non va bene. Il loro successo del settembre scorso sembra ave mobilitato molti elettori antiperonisti che sono tornati a votare, pensando che sia l’ignoto sia cento volte meglio dello status quo…”.
A risultato acquisito – una “schiacciante vittoria” - Trump ha rivendicato il successo del suo intervento, mettendo insieme alla sua maniera buoni propositi e real politik: “L’Argentina lotta per la vita, non hanno soldi, stanno morendo, avete capito o no?”, ha detto calcando un po’ la mano mentre volava in direzione Asia. “Certo, che Milei abbia vinto non fa una grande differenza per noi: ma la fa per l’America Latina. Se l’Argentina va bene, altri seguiranno la sua strada. E già in molti lo stanno cominciando a fare”. È - ormai apertamente - la rivendicazione del nuovo corso nella politica verso il Sud America, anticipato persino nella nomina di un latino come Marco Rubio alla segreteria di Stato: una rinnovata versione della ottocentesca “dottrina Monroe” che punta a sbarrare la strada non all’egemonia europea ma alla penetrazione – economica e militare – del dragone cinese.
Da anni, a lungo nel disinteresse di Washington e dell’Europa, Pechino ha investito nel subcontinente risorse enormi nella costruzione di grandi infrastrutture, nel potenziamento dell’agricoltura e nella estrazione di materie prime. In media, dieci miliardi di dollari l’anno a partire dal 2010: il mega porto di Chancay in Perù, quello di Santos in Brasile, le miniere di litio in Bolivia e quelle di rame in Cile, gli impianti per lo sfruttamento delle energie rinnovabili in Colombia, sono parte di un sistema attrattivo che va ormai molto oltre Cuba e Venezuela, e che ha fatto aderire ventitré paesi alla versione latinoamericana della Via della Seta e sposta sensibilmente gli equilibri politici a sfavore di Washington. Ora la musica è cambiata, segnala Trump, dopo aver ingaggiato bracci di ferro con il Messico e il Brasile, minacciato la Colombia, inasprito le sanzioni contro Cuba, bombardato le barche dei narcos e ribaltato i pronostici in Argentina. E mentre la “Gerald Ford” viaggia verso i Caraibi e diecimila marines si addestrano a Puerto Rico, avverte di avere gli strumenti – economici e militari - per costringere tutti almeno nel “cortile di casa” - a suonare sul suo spartito.