L’incontro Trump - Al Shara, tra lotta al terrorismo e realpolitik
L’incontro a Washington tra Trump e al-Shara e l’apertura della Siria alla possibilità dell’ingresso nella coalizione anti-ISIS. Il punto di Emanuele Rossi
L’incontro del 9 novembre alla Casa Bianca tra il presidente siriano Ahmed al‑Sharaa e il presidente statunitense Donald Trump ha rappresentato uno dei momenti più significativi della storia diplomatica attuale del Medio Oriente. È la prima volta, dopo oltre un lungo isolamento, che un leader siriano viene ricevuto ufficialmente a Washington. E dall’incontro, uno degli elementi di maggior rilievo politico e strategico, è stato l‘annuncio del probabile inserimento di Damasco nella Coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Sebbene il ministero degli Esteri siriano abbia chiarito che si tratta al momento di un impegno “prevalentemente politico”, l’atto segna una tappa decisiva nel processo di reintegrazione della Siria all’interno delle dinamiche multilaterali di sicurezza.
Un ritorno nel circuito diplomatico
Al‑Sharaa è salito al potere nel dicembre scorso, dopo la decennale insurrezione armata che ha rovesciato Bashar al‑Assad. Si presenta come figura di rottura ma anche di pragmatismo. In passato è stato capo di Hayat Tahrir al‑Sham (HTS), formazione jihadista nata dall’evoluzione della costola di al‑Qaeda conosciuta come "Jabhat al‑Nusra". Per anni fu identificato con il nome di guerra “Abu Mohammed al‑Jolani”. Con il tempo, però, ha abbandonato le posizioni più estremiste, cercando di accreditarsi come leader nazionale capace di ristabilire ordine e stabilità. La sua visita a Washington, accompagnata da gesti mediatici come il video in cui gioca a basket con il capo del CENTCOM e altri ufficiali americani, è stata letta come l’ultimo passo di un processo di normalizzazione che gli Stati Uniti osservano con cauta disponibilità.
Trump ha voluto inserire la questione dell’IS al centro dell’agenda bilaterale non a caso: il messaggio è che adesso l’ex qaedista è talmente distante dal ruolo di leader jihadista che per anni ha impersonato al punto di far parte di coloro che combattono il jihadismo – sebbene l'interpretazione del radicalismo dello Stato islamico sia differente da quella qaedista al punto che le due organizzazioni sono rivali. Secondo il nuovo presidente, “la lotta contro il terrorismo resta il fondamento della nostra sovranità”. Per Washington, la collaborazione con Damasco nella Coalizione offre la prospettiva di una transizione graduale della missione anti‑ISIS alle forze regionali, consentendo una riduzione controllata della presenza americana nel Paese (stimata oggi in poco più di duemila uomini).
L’ISIS nel vuoto di potere siriano
A quasi un anno dalla caduta di Assad, lo Stato Islamico ha sfruttato i vuoti di potere per riorganizzarsi. Approfittando delle convulse dinamiche post‑regime, i miliziani hanno saccheggiato depositi di armi e munizioni, ricostruendo modesti arsenali e ricreando una rete di combattenti stimata in alcune migliaia di uomini. L’IS non controlla più ampie porzioni di territorio, ma agisce come una vera e propria insorgenza diffusa. Piccole cellule conducono attacchi mordi e fuggi, imboscate e attentati con ordigni artigianali contro le forze di sicurezza siriane e, soprattutto, contro le Syrian Democratic Forces (SDF) – le unità a guida curda che sono state sostenute dagli Usa negli anni in cui il Califfato di Baghdadi è stato disarticolato e sconfitto nella dimensione statuale che aveva acquisito.
Nelle province orientali, in particolare a Deir Ezzor, il gruppo resta, anzi negli ultimi mesi ha intensificato le occasioni in cui ha dimostrato la propria presenza, utilizzando un mix di violenza e cooptazione economica. I miliziani impongono tasse illegali, praticano estorsioni e sequestri di persona, inserendosi nei circuiti criminali locali. Le autorità siriane – di fatto priva di un'ossatura funzionale – faticano a controllare il territorio, mentre la presenza americana si è ridotta di circa cinquecento unità negli ultimi sei mesi, e altrettanti dovrebbero lasciare il Paese prossimamente. La diminuzione delle risorse di sorveglianza, ricognizione e intelligence (ISR) ha reso più difficile il monitoraggio delle cellule jihadiste, che sembrano beneficiare della minore pressione militare internazionale.
In parallelo sul piano informativo, l’IS mantiene inoltre un importante potenziale simbolico e propagandistico. I suoi media celebrano le mini-offensive recenti e continuano a diffondere minacce dirette a Damasco con lo stesso clamore dei tempi in cui sottraevano quotidianamente chilometri di territorio agli assalisti (e ai loro protettori, Iran e Russia). Il gruppo potrebbe anche essere in grado di poter colpire la capitale con attacchi mirati, data la sua capacità di infiltrazione. La strategia attuale è “survive to expand”: in un contesto in cui le grandi potenze concentrano risorse su competizione tecnologica e minerali critici, la lotta al terrorismo è scesa di priorità, e l’IS ha ritrovato spazi per sopravvivere, che significa consolidarsi con l'obiettivo ideologico di espandersi.
La minaccia latente dei campi di detenzione
Un altro nodo cruciale riguarda i campi di prigionia e detenzione nel nord‑est della Siria, che ospitano migliaia di miliziani e decine di migliaia di loro familiari. Le strutture, sorvegliate da milizie curde sotto‑equipaggiate, rappresentano un rischio strutturale: le fughe di massa sono una possibilità concreta, paragonabile a un “gray rhino” — termine tecnico usato per indicare un pericolo altamente probabile e sottovalutato. L’organizzazione ha già dimostrato in passato di saper orchestrare campagne di evasione, come la “Breaking the Walls” e l’assalto al carcere di Hasakah nel gennaio 2022, che le consentirono di recuperare centinaia di combattenti e rilanciare la propria narrativa di resistenza.
In parallelo, la rete transnazionale del gruppo continua a funzionare. Le affiliate in Africa soprattutto, e in parte in Asia, inviano risorse e uomini verso la Siria, in un flusso inverso rispetto al periodo del califfato. Il “General Directorate of Provinces” coordina le province estere e l’“al‑Karrar Office”, con base nell’Africa orientale, gestisce il supporto logistico e finanziario. È una struttura flessibile, capace di mantenere connessioni tra i diversi fronti jihadisti globali, nota alle intelligence ma sfuggevole.
L’ingresso nella Coalizione: opportunità e rischi
L’adesione della Siria alla Coalizione anti‑ISIS, sebbene ancora limitata, indica un cambio di paradigma. Washington punta a trasferire progressivamente la responsabilità delle operazioni alle forze regionali, riducendo i costi e la presenza diretta sul terreno. Già negli ultimi mesi, le forze statunitensi hanno condotto almeno otto operazioni congiunte con le unità di sicurezza del governo siriano in aree sotto controllo governativo. L’obiettivo è costruire una collaborazione operativa incentrata su intelligence, de‑confliction e attacchi mirati contro cellule identificate.
Tuttavia, le capacità militari siriane restano fragili. L’esercito è ancora una costellazione di milizie, privo di disciplina e coesione, e alcune fazioni mantengono addirittura orientamenti jihadisti. Un contesto che rende ancora molto complicato il trasferimento di equipaggiamenti e la condivisione di informazioni con la Siria, nonostante l'enorme campagna di pr-ing fatta da al-Sharaa. Inoltre, il lento negoziato per integrare le SDF nel dispositivo militare nazionale è un fattore di incertezza: i curdi chiedono autonomia politica e amministrativa, mentre Damasco insiste su un modello centralizzato. Finché non sarà risolto questo nodo, il rischio di frizioni interne resterà elevato, con possibili effetti di paralisi operativa.
Sul piano politico‑strategico, l’ingresso di Damasco nella Coalizione si inserisce in una più ampia visione dell’amministrazione Trump. Washington mira a costruire un’architettura regionale a guida statunitense che unisca Israele e i principali Stati arabi e musulmani in un fronte di stabilità duratura, capace di contenere l’influenza dell’Iran e dei suoi alleati — così come di Russia e Cina – che sia efficace nel controllo del terrorismo, evitando impegni troppo corposi per gli Usa. La strategia si lega all’espansione degli Accordi di Abramo, che hanno visto di recente l’adesione del Kazakistan e potrebbero vedere in futuro anche la Siria farne parte, e alla volontà di trasformare la regione da teatro di guerre ricorrenti a spazio di cooperazione pragmatica.
Una normalizzazione condizionata
Per Damasco, è un’occasione di reinserimento nel sistema internazionale e di accesso a risorse e assistenza, anche in chiave umanitaria. Tuttavia, il percorso resta incerto. La credibilità del nuovo governo dipenderà dalla sua capacità di esercitare il monopolio della forza senza riprodurre le pratiche repressive del passato e senza alimentare nuove cause di radicalizzazione.
L’ISIS, dal canto suo, continuerà a sfruttare ogni ambiguità politica, ogni frizione etnica o religiosa e ogni vuoto di governance. Il successo della Coalizione, e della nuova postura siriana al suo interno, dipenderà dalla capacità di mantenere pressione costante sul gruppo jihadista, rafforzando nel contempo le istituzioni locali e i meccanismi di sicurezza condivisi. In assenza di questo equilibrio, il rischio è che la normalizzazione di Damasco diventi soltanto un’altra parentesi di (in)stabilità in un Paese che non ha ancora smesso di vivere in guerra.