Il Qatar consolida la propria influenza con la tregua a Gaza
Circondato da attori regionali ben più grandi e influenti militarmente, Doha ha scelto di consolidare la propria forza soprattutto attraverso la diplomazia. Il punto di Giulia Maria Orsi
Raggiungere l’intesa di Sharm el-Sheikh non è stato semplice e ancora meno lo sarà l’attuazione della seconda fase dell’accordo. Nel quadro ancora colmo di incertezze e tensioni è tuttavia possibile individuare alcuni vincitori morali, protagonisti indiscussi dell’evento che ha più riacceso le speranze per una pace tra i due popoli. Se da una parte il presidente Trump e i suoi fedelissimi, Steve Witkoff e Jared Kushner, hanno potuto assaporare un momento di successo, dall’altra spicca la straordinaria capacità negoziale del Qatar. “Quello che abbiamo realizzato è incredibile e loro hanno avuto un ruolo fondamentale in questo, quindi voglio solo ringraziarvi”, ha dichiarato Trump durante la sosta di rifornimento dell’Air Force One a Doha, diretto verso il summit Asean in Malesia.
Da tempo, il piccolo emirato del Golfo ha compreso che in ciascuna iniziativa di mediazione può risiedere uno strumento di potere e un mezzo di sopravvivenza geopolitica. L’articolo 7 della Costituzione del Qatar stabilisce infatti che la politica estera dello Stato si fonda sul “principio del rafforzamento della pace e della sicurezza internazionale attraverso la promozione della risoluzione pacifica delle controversie internazionali”. Circondato da attori regionali ben più grandi e influenti militarmente, il Qatar ha scelto di costruire la propria forza sulla diplomazia, con l’ambizione di affermarsi come interlocutore indispensabile a livello globale, senza il quale nessun processo di pace può dirsi risolto.
Nel conflitto tra Israele e Hamas, Doha ha svolto un ruolo insostituibile, in quanto unica potenza con un canale diretto con la leadership del gruppo islamista, che dal 2012 mantiene un ufficio di rappresentanza nella capitale qatariota. Tale posizione, spesso oggetto di critiche in Occidente, si è rivelata utile quando un’intesa tra le parti è diventata una priorità e un’urgenza sentita anche a livello globale. Coltivare relazioni tanto controverse non è certo privo di rischi e ciò è stato ampiamente dimostrato dall’attacco israeliano volto a eliminare la squadra negoziale di Hamas a Doha. Tuttavia, nonostante lo shock condiviso e la violazione della propria sovranità territoriale, il Qatar ha scelto di non abbandonare il tavolo negoziale. Decisivo, in tal senso, è stato l’intervento di Washington, che ha esercitato forti pressioni su Benjamin Netanyahu affinché si scusasse personalmente con l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani e promettesse che un simile episodio non si sarebbe ripetuto. Alla telefonata di scuse, immortalata con una fotografia emblematica nello Studio Ovale, si è aggiunta una garanzia senza precedenti dagli Stati Uniti in materia di sicurezza. Si tratta della firma di un ordine esecutivo del presidente Trump per cui ogni futuro attacco contro il Qatar sarà interpretato come una “minaccia alla pace e alla sicurezza degli Stati Uniti stessi”. La misura, che richiama lo spirito dell’articolo 5 della NATO pur senza valore vincolante per le amministrazioni future, rappresenta una dichiarazione politica di grande peso, suggellando la trasformazione del Qatar in un alleato strategico di Washington.
Rassicurato dalle garanzie americane, il team negoziale qatariota ha potuto riprendere il lavoro e, contro ogni pronostico, è riuscito a far accettare in tempi record il piano in venti punti proposto da Trump. Per Doha, il successo della trattativa è stato un traguardo fondamentale, che ha consolidato la propria immagine di hub diplomatico capace di mediare anche nei contesti più complessi. La strategia qatariota può essere letta come una forma di neutralità trasformata in influenza, qualità che il ricco emirato del Golfo aspira a consolidare anche attraverso strumenti di soft power.
Il fronte israelo-palestinese non è l’unico in cui il Qatar si trova impegnato in veste di mediatore. Già durante la prima amministrazione Trump, Doha era stata coinvolta nei negoziati tra Stati Uniti e Talebani per il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Sotto la presidenza Biden, invece, l’emirato ha facilitato il dialogo tra Washington e Caracas - ruolo che attualmente non ricopre, come ha recentemente precisato il primo ministro Mohammed bin Abdulrahman Al Thani. Ad oggi il Paese risulta coinvolto in circa otto processi di mediazione. Tra i più rilevanti, la facilitazione del dialogo tra Pakistan e Afghanistan, i colloqui tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda e le iniziative per il ricongiungimento di bambini ucraini sfollati durante la guerra tra Russia e Ucraina.
La tregua di Gaza potrebbe rappresentare dunque non solo un passo verso la de-escalation, ma anche la conferma di un nuovo equilibrio regionale nel quale il Qatar intende restare protagonista. È soprattutto grazie alla sua diplomazia che Doha sembra aver così consolidato la propria nicchia di potere.