Da Doha a Gaza: gli Stati Uniti al centro delle dinamiche mediorientali
Washington appare sempre più cruciale per la diplomazia e la sicurezza della regione. Il punto di Emanuele Rossi

L’ordine esecutivo firmato da Donald Trump a fine settembre, che impegna gli Stati Uniti a considerare qualsiasi attacco contro il Qatar come una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale, ha innescato una catena di conseguenze geopolitiche che vanno ben oltre il Golfo. Secondo le informazioni del Financial Times dopo Doha, anche l’Arabia Saudita è in trattativa per ottenere una garanzia simile, e parallelamente Washington sta definendo il quadro di sicurezza che accompagnerà la transizione postbellica di Gaza, senza dimenticare l’alleanza con la Turchia.
Quattro elementi — il patto con Doha, l’intesa con Riad, il Piano Trump per Gaza, il ruolo di Ankara — che compongono ormai un mosaico coerente: un sistema di sicurezza regionale a geometria variabile, fondato su garanzie bilaterali, presenza multilaterale controllata e deterrenza selettiva.
Un precedente politico che ridefinisce il ruolo americano
La garanzia offerta al Qatar attraverso un ordine esecutivo non è un trattato ratificato dal Congresso, ma rappresenta un precedente politico di estremo rilievo. Il testo impegna Washington a “prendere tutte le misure legali e appropriate, incluse quelle militari, per difendere gli interessi degli Stati Uniti e del Qatar”.
È la prima volta che un paese arabo non appartenente alla NATO riceve un riconoscimento simile, un’analogia politica e strutturale (sul piano concettuale, non giuridico) con l’Articolo 5 del trattato transatlantico – che definisce il perimetro di intervento per la difesa collettiva se un membro dell’alleanza viene attaccato.
L’ordine nasce dopo il raid israeliano contro dirigenti di Hamas in territorio qatariota, che, all’inizio di settembre, ha causato vittime locali e imposto al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, scuse pubbliche sotto pressione americana. Trump ha trasformato quella crisi tra partner prioritari (seppure differenti) in Medio Oriente in un punto di svolta: Doha, da potenziale vulnerabilità, è divenuta un nodo della sicurezza americana.
Riyadh punta a un “Qatar-plus”
Non è un segreto che, al di là delle conferme delle ultime informazioni diffuse dai media, Washington e Riad stiano negoziando un accordo di sicurezza comune – anche “più robusto” rispetto a quello qatariota. L’obiettivo è formalizzarlo durante la visita di Mohammed bin Salman alla Casa Bianca, prevista per il mese prossimo. La formula prevede cooperazione militare e di intelligence rafforzata, programmi congiunti sul contrasto ai droni e la possibilità di includere forniture di F-35 – ossia della più tecnologica piattaforma aerea da combattimento che gli Usa condividono con gli alleati.
Per l’Arabia Saudita, il nuovo patto servirebbe a blindare la Vision 2030, il piano di trasformazione economica e infrastrutturale del Regno, sotto la dimensione securitaria e della protezione del proprio progetto strategico di espansione internazionale. La memoria dell’attacco del settembre 2019 alle installazioni petrolifere di Abqaiq, a cui Washington non rispose militarmente, pesa ancora sulla leadership saudita. Quello che già qualcuno sta definendo “Qatar-plus” rappresenterebbe dunque sia una garanzia politica di continuità (e contiguità) americana, ma anche un riconoscimento del ruolo crescente di Riad come pilastro delle dinamiche regionali.
L’occasione per chiudere questa intesa, in discussione da anni, è legata anche al processo di stabilizzazione a Gaza, con la tregua tra Israele e Hamas, mediata da Washington, che dovrebbe non solo reggersi ma implementarsi, dopo due anni di guerra sanguinosa. Addirittura, il presidente statunitense ha avuto lo slancio di annunciare che Riad potrebbe essere il prossimo attore negli Accordi di Abramo – il sistema politico-diplomatico con cui l’amministrazione Trump, durante il primo mandato, aveva aperto alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni paesi del mondo arabo-islamico. “Spero di vedere l’Arabia Saudita entrare [negli Accordi Abramo], e spero di vedere altri entrare. Penso che quando l’Arabia Saudita entrerà, entreranno tutti”, ha detto Trump in un'intervista trasmessa venerdì 17 ottobre su Fox Business Network, mentre commentava come il cosiddetto “Trump Plan” per Gaza modificherà gli assetti nel Medio Oriente.
Il piano per Gaza: sicurezza, governance e accettabilità politica
Non a caso, la Casa Bianca ha definito le linee del Piano Trump per Gaza centrate su un meccanismo di sicurezza multilaterale. Il documento prevede per esempio una International Stabilization Force (ISF) composta da Stati Uniti, partner arabi e attori internazionali, incaricata di presidiare e gestire la transizione postbellica. L’obiettivo è duplice: garantire la sicurezza immediata e costruire le condizioni per una governance palestinese stabile e credibile.
Il piano, confermato dal rappresentante speciale Steve Witkoff, prevede un ritiro graduale dell’IDF fino al 40% e poi al 15% del territorio di Gaza, l’istituzione dell’ISF che assumerà il controllo operativo e addestrerà forze di polizia palestinesi selezionate, e il mantenimento di un perimetro di sicurezza fino all’eliminazione di ogni minaccia terroristica residua.
La strategia di lungo termine punta a garantire ai palestinesi una percezione di sicurezza e prospettiva politica, elementi indispensabili per legittimare la fase post-bellica, aprendo nel tempo un percorso verso autodeterminazione e statualità, anche agli occhi degli attori regionali – come i grandi attori del Golfo. Il successo del piano dipende dalla capacità di bilanciare stabilizzazione e inclusione, ossia di creare un ecosistema di sicurezza accettabile dunque da palestinesi, israeliani e player regionali. La smilitarizzazione di Hamas, per quanto profondamente complessa, in quest’ottica è un un elemento di stabilizzazione non solo locale, ma simbolico a livello regionale – contro quelle entità che agiscono anche come proxy di forze destabilizzanti.
La nuova cornice euro-atlantica sul fronte sud passa da Ankara
Da qui, il discorso s’allarga. Mentre il Golfo entra in una nuova fase di ridefinizione degli equilibri, la Turchia – attore altrettanto primario in Medio Oriente e Mediterraneo – rafforza la propria posizione come alleato operativo e autonomo. La firma, a inizio ottobre, del Memorandum of Understanding sulla Strategic Civil Nuclear Cooperation con Washington segna un punto di riavvicinamento politico e industriale, aprendo la strada a progetti congiunti nel nucleare civile e nelle tecnologie dual use. Parallelamente, Ankara consolida il suo profilo militare nell’ambito NATO: insieme al rinnovato rapporto con gli Usa, c’è il dispiegamento di un AWACS in Lituania, la gestione del processo di normalizzazione tra Armenia e Azerbaigian e il rinnovato interesse per il programma F-35 – tutti elementi che indicano una strategia di reintegrazione funzionale di Ankara nella catena di comando occidentale, che si accompagna al sostegno al Trump Plan per Gaza, al ruolo primario giocato in Siria e agli interessi portati avanti nel Nordafrica. La Turchia si propone così come fornitore di sicurezza lungo i fianchi orientale e meridionale dell’Alleanza Atlantica, ma anche come interlocutore funzionale per gli attori mediorientali.
Un mosaico di sicurezza a geometria variabile
Qatar, Arabia Saudita e Gaza delineano dunque tre cerchi concentrici di una stessa strategia (di ispirazione americana) per creare l’architettura securitaria generale della regione mediorientale. Il Qatar rappresenta il perno logistico (ciò che emerge è la costruzione di un nuovo sistema di sicurezza) e politico, grazie alla base di Al Udeid e alla sua diplomazia multilaterale. L’Arabia Saudita incarna la dimensione politico-militare e il collegamento con le ambizioni economiche del Golfo. Gaza, è il laboratorio di un modello di stabilizzazione condivisa che potrebbe essere replicato altrove. Ankara è, infine, il punto di contatto tra Medio Oriente, Mediterraneo e sfera Euro-Atlantica.
Washington si muove così su due livelli: deterrenza bilaterale nel Golfo e governance multilaterale nel Mediterraneo. Entrambe rispondono a un principio comune: ridurre l’esposizione diretta americana pur mantenendo il controllo strategico delle dinamiche regionali.
Ciò che emerge è la costruzione di nuovo sistema di sicurezza. Delineato da Washington, non nasce da un trattato né da una coalizione formale, ma da una rete di accordi bilaterali e dispositivi multilaterali coordinati. L’ordine esecutivo sul Qatar, i negoziati con l’Arabia Saudita e il Piano Trump per Gaza, le nuove intese con la Turchia, compongono un’unica architettura strategica, in cui l’America conserva la leadership senza doverla esercitare in prima persona su ogni teatro. Sarà possibile definire e implementare questo macro-progetto?