Nigeriani d’America. Donald Trump e la preoccupazione per il gigante africano.
Aumenta la distanza tra Washington e Abuja. Il punto di Ginevra Leganza
Commercio, aiuti alla sicurezza, diplomazia. Sono i tre cardini di un rapporto internazionale scalfiti oggi dall’acronimo “Cpc”, Country of particular concern, “paese di particolare preoccupazione”. Nella notte tra il 16 e il 17 novembre, nello stato nigeriano di Kebbi, venticinque scolare sono state rapite da una delle tante ganghe armate. L’episodio porta alla memoria il rapimento di trecento studenti, nel 2014, per mano di Boko Haram. E dunque “preoccupante”, Country of particular concern. Tale, ancora una volta, è per gli Stati Uniti d’America la Nigeria. “Preoccupante”, per il paese più potente del mondo, è il paese più popoloso del continente che quest’anno conta 237,5 milioni di abitanti (Worldometer). E pensare che il rapporto tra i due stati – giganti del Nord e Sud del mondo – è relativamente antico. E cioè risalente all’indipendenza nigeriana del 1960. Momento a partire dal quale si cominciano a scambiare diversi beni e servizi sino ai giorni d’oggi: macchinari per il grano da Nord a Sud, petrolio da Sud a Nord. Ma ecco che, arrivati a noi, non di solo grano vive l’uomo. Il commercio e la diplomazia s’incrinano dopo una climax durata anni e arrivata all’apice con l’amministrazione di Donald Trump. Culminata, in particolar modo, per via della violazione dei “fratelli cristiani”. Il presidente americano, d’altro canto, al protezionismo economico annette da sempre il protezionismo spirituale. E dunque il fattore religioso, nonché mistico, della sua fede che provoca giocoforza scandalo per i 7.000 cristiani uccisi nel solo 2025 (e nei soli primi sette mesi dell’anno: circa 35 morti al giorno). Trump punta così al governo nigeriano di Tinubu. In buona sostanza, lo accusa di connivenza. E cioè di aver consentito “gravi violazioni della libertà religiosa”. Parole, queste, che si specchiano di anno in anno in numeri vieppiù critici.
Dati e contromisure
Nel 2024 (dati Uscirf) furono 5.014 gli omicidi legati alla religione, con il 62 per cento delle vittime di fede cristiana negli stati di Plateau e Benue. Altri studi di Acled rilevano poi come il dato della violenza politica tenda a innestarsi, nel 40 per cento dei casi, con lo scontro interreligioso che oppone i pastori Fulani alle comunità agricole cristiane. Per un aumento generale delle violenze religiose che negli ultimi due anni sale del 9 per cento secondo Human Rights Watch. Nel solo 2023 gli Stati Uniti documentarono oltre 4 mila violazioni della libertà e soli 12 procedimenti giudiziari avviati. Una sproporzione abissale che dà oggi seguito alla richiesta del senatore Ted Cruz. Il quale già nel febbraio di quest’anno – e cioè all’indomani dell’insediamento di Trump – premeva sul Congresso per l’adozione del Nigeria Religious Freedom Accountability Act. Ossia per l’imposizione dello status di Cpc permanente, con sanzioni ai danni dei responsabili dell’applicazione della Sharia.
Ma ecco che prima di inoltrarsi nelle venature culturali di “Cpc”, occorre capire cosa comporta questa scelta. Dacché la Nigeria rientra nella lista dei paesi preoccupanti – dalla quale, dopo il primo Trump, si era affranca con Biden – Washington dovrà adottare reazioni particolari nei confronti di Abuja. Misure che vanno dalle più generiche sanzioni alle restrizioni di viaggio. Benché il focus, nonché punto interrogativo, siano soprattutto i 112 milioni di dollari annuali stanziati per l’assistenza militare: un aiuto rispetto al quale Tinubu parrebbe sempre più immeritevole. Soprattutto a fronte della quasi totalità delle aggressioni – spesso legate alla Sharia negli stati musulmani – rimaste impunite dal 2015 a oggi.
Cristiani oppressi, cristiani redentori
Epperò la domanda, a questo punto, ruota spontaneamente intorno all’America più che all’Africa. Se infatti Boko Haram esiste dal 2002, se le violazioni dei Fulani non sono cominciate con l’assalto a Capitol Hill, cos’ha smosso l’amministrazione statunitense? Qual è stato il pungolo per cui proprio adesso la Nigeria accora il presidente degli Stati Uniti? Le risposte possono essere tante. Ma poiché demoni e dei si nascondono nei dettagli, forse bisogna partire proprio dal dettaglio di un cappellino. “Jesus is my savior, Trump is my President”: così è scritto sui gadget – perlopiù cappelli con visiera e magliette – che circolano sulle piattaforme di E-commerce. Religione e politica, con Donald Trump, non sono mai state estranee l’un l’altra. Anzi. Da un certo punto di vista, la sua difesa del cristianesimo valica gli argini propri del suo protezionismo economico. O meglio, investe gli Stati Uniti del pathos messianico e universale che già l’attentato del 13 luglio 2024 a suo tempo acuì.
Fu allora che, in Pennsylvania, sfiorato dal bossolo di Thomas Matthew Crooks, Trump gridò insanguinato: “Fight! Fight!”. Scampato al proiettile, il presidente e il suo entourage cominciarono a vedere nell’aspetto religioso, e miracoloso, un elemento precipuo delle proprie campagne.
Se per esempio il pastore evangelico Franklin Graham s’addentra in analisi taumaturgiche che ricordano i due corpi del re di Kantorowicz (“Trump è stato scelto da Dio”, ha detto Graham), dal canto suo il tycoon catalizza il voto del ventaglio cristiano. Elemento non banale, quindi, è proprio la sua a-confessionalità cristiana. Che per paradosso – ispirando una religiosità personale – apre come un ventaglio a tutte le altre confessioni, senza preclusioni. Che catalizza cattolici ed evangelici e che – anche grazie a telepredicatrici come Paula White Cain – trasforma le affinità elettive in affinità elettorali. Una visione religiosa e politica, centrata sulla difesa del cristianesimo perseguitato nel mondo, che spiega la rediviva attenzione per la Nigeria (paese dove il rapporto tra cattolici ed evangelici è oggi altrettanto osmotico).
La designazione di Country of Particular Concern rientra quindi nella promessa, fatta alla base, di proteggere i fratelli cristiani all’estero, di punire i governi percepiti come incapaci di farlo. Al di là delle intenzioni, invero coinvolgenti, una domanda resta per il momento inevasa. Il punto è se l’intervento diretto contro il governo nigeriano non possa ledere la già precaria stabilità regionale. E se non si possano concepire soluzioni alternative, con il coinvolgimento di altri “fratelli cristiani” tra Europa e Africa, per proteggere la popolazione violata non da oggi ma da decenni.