Il cattolicesimo in Africa
Un continente “non più trascurabile”. Di Ginevra Leganza

Dopo Francesco il gesuita, Leone l’agostiniano. Il Sud America passa il testimone al Nord. Eppure nell’operato futuro della chiesa cattolica, il termine incognito non sembra tanto nel nuovo mondo quanto nel vecchio. Nell’Africa che nelle parole del segretario di stato Pietro Parolin fu per Jorge Mario Bergoglio co-protagonista di una “fioritura concordataria”. Di un rapporto privilegiato – durante i dodici anni di pontificato – dai cinque viaggi apostolici che si riflettono ancora in due dati, non meno eloquenti. Se i papabili africani di pelle scura – alla morte di Francesco – sono infatti rimasti cardinali, nondimeno è in aumento costante, in Africa, il numero dei cattolici che a oggi sono 280 milioni; il 20 per cento su scala mondiale. Così come gioca un ruolo cruciale l’incidenza delle chiese cristiane nel welfare sanitario del Continente, corrispondente al 70 per cento del totale secondo i dati dell’Oms.
L’argentino venuto dalla fine del mondo, animato dalla radice missionaria della compagnia di Loyola, ha così disassato i cardini europei. Parlando ancora di “guerra mondiale a pezzi”, Bergoglio ha reso il policentrismo della sua diplomazia vaticana. Nella quale un posto di rilievo ha assunto il continente più antico e paradossalmente più giovane al mondo (il post-occidentalismo, del resto, trova una sua radice tanto nel calo demografico occidentale quanto nel conseguente calo del numero di cattolici che, secondo l’Annuario Statistico della Chiesa, nell’ultimo anno corrispondono al 39,5 per cento della popolazione).
Il cattolicesimo si sveste così, con il Papa gesuita, del suo involucro europeo. E gli interrogativi ruotano ora attorno al soglio di Robert Francis Prevost. Intorno a Papa Leone XIV che non è certo estraneo all’Africa – non foss’altro che per l’appartenenza all’ordine di Agostino: il santo e padre della Chiesa nato a Tagaste, oggi Souk Ahras, moderno centro agricolo algerino.
Dell’ordine agostiniano Prevost fu il priore generale. E fu proprio in tale veste, e da cardinale, che compì i suoi tre i viaggi africani: due in Kenya, nel 2011 e nel 2024; e uno in Repubblica Democratica del Congo, nel 2009. Non è un caso, infatti, che all’indomani dell’elezione al soglio petrino, il segretario congolese della Cei Donatien Nshole esprimeva la speranza che “Leone continui a seguire il linguaggio di Papa Francesco dedicando un’attenzione particolare alla costruzione di una pace duratura nella Repubblica Democratica del Congo”.
Ed è proprio sotto il segno della pace – “disarmata e disarmante” – che comincia a snodarsi il pontificato di Prevost. Ucraina, Vicino Oriente, Myanmar sono le prime regioni che accendono gli sforzi e gli appelli del successore di Pietro. Ma stando all’Africa, è certamente il Sahel, nell’accezione geografica più estesa, a focalizzarne l’attenzione.
Da Bergoglio a Prevost. Panoramica sulle priorità africane del Vaticano
In primis, dunque, la pace. Il Global Terrorism Index dell’Institute for Economics and Peace individua nella cintura subsahariana il teatro responsabile di quasi la metà delle vittime globali legate al terrorismo nel 2024. Da aprile a luglio dell’anno scorso, 400 attacchi hanno causato la morte di 2.900 persone tra Mali, Burkina Faso e Niger. E va da sé che nella furia del Jihad saheliano, tra le vittime siano prese di mira le comunità cristiane (i dati di Open Doors circa le persecuzioni dei cristiani nel mondo mostrano, a tal proposito, un aumento nei paesi dell’Aes). Sono episodi in serie, questi. Simili a quello consumatosi il 25 febbraio 2024 in Burkina Faso allorché un gruppo di quindici fedeli, riunito in preghiera, fu assassinato nel villaggio di Essakane (in una giornata di stragi che vide aggiungere alle vittime cristiane quelle musulmane nella moschea di Natiaboani).
La pace africana risulta perciò in cima alle priorità fissate nel precedente pontificato e nell’agenda attuale. Ancora in Burkina – a riprova della sua tragica centralità – è stato scelto lo scorso anno il Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani per la stesura del sussidio alla Settimana di preghiera. Un segno, questo, che testimonia quanto scriveva lo storico delle religioni Alex Thurston già nel 2020, indicando il Sahel quale “inferno imparagonabile” a ogni altra crisi umanitaria africana – per quanto il teatro delle persecuzioni non sia certo limitato all’Aes, e cioè al Niger, al Mali e al Burkina Faso.
Il conflitto sudanese che dal 2023 oppone l’Armed Forces (Saf) al Rapid Support Forces (Rsf) produce infatti un bilancio di morti altissimo, circa 150 mila; tra le cui vittime e sfollati, le comunità cristiane sono bersaglio doppio poiché perseguitate da entrambi i fronti. Le chiese sudanesi profanate – e sovente trasformate in basi militari – sono così il frutto avvelenato dell’ideologia suprematista araba promulgata dal leader del Rsf, Hemmetti.
Spostandosi verso ovest, poi, i massacri sudanesi trovano, un richiamo in Nigeria. Dal 2024 ai primi mesi di quest’ultimo anno, i fedeli uccisi – di confessione cattolica o protestante, come il reverendo Alphonsus Afina – sono stati circa 5 mila. Oltre al gruppo Boko Haram, territori come la Middle Belt rappresentano ancora il luogo di scontro fra i pastori musulmani Fulani e gli agricoltori cristiani.
Lo sforzo per la pace – con tutto ciò che ne consegue in termini di servizi da implementare – è dunque l’interesse prioritario della chiesa di Roma. Per quanto, comunque, non sia l’unico. Giacché neppure la chiesa di Roma, in Africa, è l’unica. E qui s’arriva al secondo punto.
Dietro la minaccia del sangue, si nascondono infatti altri rovelli. Certo meno drammatici, ma non per questo poco sentiti se il ruolo egemonico cui ambisce il Vaticano trova un argine nell’avanzare dei gruppi pentecostali. In altre parole: la persecuzione è una spina interna, la conversione (o apostasia), quella esterna.
I gruppi pentecostali, in Africa, si affermano con progetti di welfare che attirano la popolazione più vulnerabile verso le proprie sponde. Fra le scuole, le cliniche, le imprese, i centri formativi, in Nigeria spicca tra gli altri Redemption City. E cioè la struttura che, nell’ambito della Redeemed Christian Church of God, conta 5 mila case, e poi strade, servizi di raccolta e smaltimento rifiuti, stazioni di polizia, supermercati, banche e una centrale elettrica. Un esempio di potere spirituale che, alla prova della concretezza, ha visto crescere esponenzialmente il capitale umano. Se nel 2018 nella Città della redenzione – a Mowe, nello stato di Ogun – ci abitavano 12 mila persone, a partire da marzo 2023 la stima è di 200 mila cittadini. Un esempio, questo, che prova quanto i rami confessionali possano crescere e attirare fedeli per la capacità di offrire soluzioni tangibili a problemi insormontabili.
In Congo, l’arcivescovo Manamika Bafouakouahou, di Brazzaville, etichetta la situazione in termini di “guerriglia spirituale” contro la chiesa cattolica. Già in un rapporto del novembre 2023, Manamika equiparava la minaccia delle chiese pentecostali alla massoneria. Tanto l’una quanto l’altra sono considerate, dall’arcivescovo, soluzioni di comodo per problemi strutturali. Là dove le une – spiegava – attirano i vulnerabili, le altre appagano le ambizioni delle élite che vi aderiscono per ascendere socialmente.
Massoneria a parte, però, sono proprio i movimenti di confessione protestante a costituire un grattacapo oltre il contesto bellico. Anche perché le due confessioni – leggendo i dati – sono parte in causa di un meccanismo di porte girevoli.
I due culti, in Africa, guardano spesso in direzioni opposte. A seconda delle opportunità. Il che accade per esempio in Etiopia o in Nigeria, dove al declino dell’una si oppone l’ascesa dell’altra. E dove la tenuta del cattolicesimo è in effetti compromessa da un crescente numero di evangelici che, ad Abuja, costituiscono il 60 per cento della popolazione.
Ed è dunque in tale scenario di persecuzioni, guerre, e non ultimo di competizione tra culti cristiani, che si muove l’instabile orizzonte del Vaticano. Alle prime luci di un giovane pontificato, certo ben consapevole del nuovo mondo cristiano.
“Figlio di Agostino”, santo d’Algeria
Il post-occidentalismo bergogliano viene così raccolto e passato al vaglio di nuove sensibilità che potrebbero ripartire, questa volta, dal Nord Africa. “Sono un figlio di Agostino”, è stato l’esordio di Leone XIV a poche ore dalla sua elezione.
Ed ecco allora che proprio dal santo e padre della chiesa è forse utile ripartire per focalizzare una possibile traiettoria africana. Perché di certo c’è che, tra le persecuzioni in Sahel e le oscillazioni confessionali, il primo e immediato legame di Prevost con l’Africa è proprio con le sponde settentrionali del Continente. Non immediatamente con le nazioni subsahariane, bensì, nel caso specifico, con l’Algeria.
Secondo Afrik.net, il papa statunitense potrebbe presto annunciare un viaggio apostolico, nel 2026, che riprenda il pellegrinaggio agostiniano. E dunque un viaggio che, in Africa, parta proprio da lì. Non è un caso, per gli osservatori, che durante l’estate Prevost abbia concesso udienza al presidente Abdelmadjid Tebboune a seguito di un vertice italo-algerino. Il 23 luglio scorso Tebboune si trovava a Roma per discutere di energia, immigrazione, difesa. Un viaggio volto a rimarcare la propria proiezione internazionale, e giocoforza mediterranea, attraverso l’Italia (partner sempre più rilevante per Algeri). È stato a quel punto, e a poche ore dal vertice, che la Santa Sede ha delineato una non banale triangolazione diplomatica. Ma per capire come l’Algeria possa costituire uno snodo cruciale, se parliamo di Vaticano in Africa, è necessario cogliere i tratti salienti del suo rapporto con lo stato italiano.
Nel corso degli ultimi vertici l’Italia ha deciso d’imporsi quale interlocutore privilegiato per Algeri; il che, in apparenza, dovrebbe c’entrare poco o nulla con la chiesa cattolica. Eppure gli scambi commerciali per 21 miliardi di dollari (nel 2023) hanno dato la forza a Roma di allargare lo spettro delle questioni sui tavoli diplomatici. Le quali, dal volume di scambi commerciali, si sono estese – sempre più e con sempre maggiore profondità – alla sicurezza nell’area mediterranea, nel Sahel e nel vicino oriente. L’interdipendenza economica con l’Algeria è garantita dalle infrastrutture italiane in loco non meno che dalla volontà italiana di trasportare idrogeno verde dal Nord Africa verso l’Europa attraverso il progetto SoutH2 Corridor. Allo stesso tempo, però, le discussioni tra i due paesi si allargano oggi alla risoluzione delle crisi regionali africane.
In tal senso, l’udienza papale è stata letta come un preludio. Un segnale forte nei confronti di uno stato islamico che assume un approccio di tolleranza religiosa non solo entro i propri confini – dove sono stati riabilitati luoghi di culto cattolici – ma anche all’esterno, verso Sud. Là dove le comunità cristiane, per riprendere Alex Thurston, vivono il loro inferno in terra.
D’altra parte, l’udienza del 24 luglio scorso rientra nel più ampio quadro di confronto interreligioso che s’incardina sul lascito di Agostino, padre spirituale di Leone XIV. Santo cristiano e filosofo caro all’Algeria anche tra le autorità musulmane che lo considerano oggi un “figlio del paese” (così fu presentato il santo nel corso del seminario internazionale del 2022 a Souk Ahras, dove il segretario generale dall’Alto consiglio islamico parlò di Agostino come traît d’union tra i due mondi). Senza dimenticare, ancora, quanto l’intesa interreligiosa benefici della valorizzazione della memoria cristiana e dei monaci trappisti di Tibhirine: i tredici martiri che negli anni Novanta del secolo scorso furono trucidati dal Gruppo armato islamico algerino (Gia). E che, in forza di un decreto papale di Begoglio, sono stati beatificati nel dicembre 2018.
Che il primo approdo di Prevost, in Africa, sia dunque l’Algeria? L’ipotesi regge per chi ad Algeri vede il bandolo da cui dipanare un filo. Il quale, mano a mano, dovrebbe procedere verso Sud: direzione Sahel.
All’indomani dell’elezione
Nord e Sud del mondo, quindi. “A Roma si dice che chi entra in conclave da Papa ne esce cardinale, dunque non ci ha sorpreso che alcuni papabili molto citati non siano stati scelti”. Queste parole, pronunciate dal direttore di Catholic Television Nigeria, padre Patrick Alumuku, offrono un’immediata sintesi delle aspettative rimaste inevase l’8 maggio scorso.
Nella “Roma senza Papa” all’indomani della morte di Bergoglio, i tre cardinali africani erano forse in cima alle figurazioni europee (altresì alimentate dall’immaginario filmico non ancora cimentatosi con la talare bianca in contrasto con la pelle nera). Nelle terre d’origine, invece, tali attese erano più tenui. Perlomeno nella loro esposizione mediatica.
Intorno alla porpora di Besungu (arcivescovo di Kinshasa), Turkson (cardinale ghanese), Sarah (ex prefetto guineano per la Congregazione del Culto divino) si addensavano i nostri pronostici. Al punto che, all’elezione di Prevost, il ricercatore e padre camerunese Humphrey Tatah Mbuy aveva definito i suddetti “papi da giornale”. Dimostrando quanto le aspettative fossero più accese a Nord che a Sud del Mediterraneo. E nondimeno le reazioni sopraggiunte da Sud hanno generalmente colto in Prevost, Papa del Nord, l’auspicio di una nuova attenzione sul Continente.
La parola “pace” – pronunciata molte volte nel corso dei primi discorsi – ha costituito il chiodo per un quadro di mutati equilibri geopolitici non meno che spirituali. In quei giorni, sempre padre Alumuku ribadiva quanto la necessità di prendere sul serio l’Africa sia oggi ineludibile per qualsiasi pontefice. Sia egli nordamericano o africano, gesuita o agostiniano. “Qualsiasi Papa – dichiarava dopo l’8 maggio Alumuku – oggi non sottovaluterebbe l’importanza dell’Africa nella chiesa cattolica, dal momento che è qui che la chiesa cresce, è qui che l’entusiasmo è vivo, è qui che si formano i missionari anche per il resto del mondo”.
D’altro canto, l’idea che il Papa d’America non trascurerà i paesi africani è sostenuta ancora dalla scelta di un nome che, per molti religiosi, rispecchia un chiaro piano spirituale. Lo stesso padre Mbuy – che spicca, nel contesto religioso, per le sue posizioni critiche della dipendenza africana dai poteri esterni – coglie in tale scelta “un richiamo”. Ovvero un’indicazione “a seguire le orme di Leone XIII” prima ancora che di Bergoglio: “a preoccuparsi – cioè – della vita sociale, politica ed economica delle persone”. A fargli eco, dalla Nigeria, il vicario generale pastorale, padre Moses Aondover Iorapuu: “Dopo la Rerum Novarum di Leone XIII, il successore di Pietro sarà il pontefice della giustizia sociale, un crociato per la pace nel mondo”. Dichiarazioni, queste, che si sono succedute sino a raccogliere i maggiori entusiasmi nelle regioni cristiane più arrischiate, come nel caso del Sud Sudan, dove l’arcivescono Hiiboro Kussala ha parlato dell’elezione del nordamericano in termini di “grazia”.
Come già ricordato – pur sotto la pressione delle persecuzioni e del sangue – al censimento del 2021 i nuovi cattolici africani erano 8,3 milioni. Un dato soggetto a crescita esponenziale sino al 2023. Anno in cui si segnala nel Continente la fetta del 20 per cento dei cattolici al livello mondiale. “Impossibile trascurare l’Africa”, ribadiscono perciò i religiosi, consapevoli che la mancata elezione di un “loro” Papa non avrebbe esonerato nessuno dal proseguire un’opera concreta di welfare, di impegno diplomatico per la pace, e non ultimo di sforzo dialettico (ampiamente assolto da Bergoglio) per tenere il faro puntato sui paesi martoriati. Un entusiasmo – va sottolineato – che tuttavia non collima con l’ingenuità. Lo stesso camerunese Mbuy intreccia infatti la sua speranza alla consapevolezza – altrettanto cristiana – di una salvezza per così dire individuale. “In molti vogliono far uscire l’Africa dall’arretratezza – diceva appena dopo l’elezione – ma gli africani stessi sembrano non volerlo […] Credo che il Papa cercherà di aiutare i popoli africani ad aprire gli occhi su ciò che sta accadendo loro”.
Da dove comincerà il viaggio di Prevost – se da Algeri o più a Sud del Sahara – resta ancora un’incognita. Di certo c’è che – tracciato il solco – tornare indietro non sembra possibile. Sia per i Cesari sia per la Chiesa, l’Africa non è più trascurabile.
Per approfondire
Alex Thurston, Jihadists of North Africa and the Sahel, Cambridge University Press, 2020