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COP15 in Africa: sotto il Sahara incombono le bombe sociali della guerra russo-ucraina

La COP15 in Costa d’Avorio si apre in un contesto fortemente condizionato dalle ripercussioni della guerra russo-ucraina. L’analisi di Alessandro Giuli

La quindicesima sessione della Conferenza delle Parti organizzata dal 9 al 20 maggio ad Abidjan, in Costa d’Avorio, da parte della Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta contro la desertificazione (CNULCD), si svolge sotto la cattiva stella della guerra russo-ucraina. E in una cornice generale che conferma la recente analisi svolta qui da Luciano Pollichieni, ben sintetizzata in un’affermazione di crudo nitore: “Il deterioramento climatico, al di là della sua dimensione tecnico-scientifica, è un fenomeno politico, o meglio geopolitico”. Se il tema della conferenza – “Da un mondo precario a un avvenire prospero” – risuona in Africa più come un appello lancinante che come un auspicio (men che mai come una prospettiva di medio periodo), lo si deve anche al pesante impatto del conflitto europeo sugli indicatori economico-ambientali di un Continente già di suo in crisi cronicizzata. I numeri di partenza parlano chiaro: il 40 per cento delle terre risulta compromesso sia in termini di sfruttamento per sussistenza sia come ecosistema biodiversificato. Appare al momento assai lontano l’obiettivo di ripristinare un miliardo di ettari fruibili da qui al 2030, tema che sarà al centro anche dei successivi appuntamenti della COP27 in Cina e in Egitto (le tre tappe annuali della Convenzione di Rio). Ma più ancora bisogna fare i conti con una emergenza alimentare che trova nel Sahel un epicentro drammatico sotto il profilo umanitario almeno quanto destabilizzante in termini geopolitici continentali: oltre 38 milioni di persone colpite dalla fame e dalla malnutrizione. Soltanto in Niger, la produzione cerealicola registra un decremento del 40 per cento (15% in Mali e 10 in Burkina Faso) e si accompagna a un’impennata inflattiva superiore a quella che sta serpeggiando in Maghreb: parliamo di oltre il 50 per cento rispetto alla media degli ultimi cinque anni.

Il crollo della produzione agricola in Ucraina, insomma, va ad accentuare un quadro endogeno già fortemente periclitante, in cui il costo interconnesso delle derrate alimentari e dell’energia si abbatte anche sulle speranze di un rimbalzo post pandemico (basti pensare ai prezzi degli agrocarburanti essenziali derivati dal mais e dalla colza statunitensi). Secondo le stime più credibili, mancheranno presto all’appello 85 milioni di tonnellate di grano e mais provenienti da Kiev, pari a un quinto degli scambi sui mercati internazionali, cui si aggiungono 6 milioni di tonnellate d’olio di girasole.

Quanto alle politiche di stoccaggio per fronteggiare l’emergenza, le cose non vanno meglio: gli Stati saheliani sono passati negli ultimi anni dal 15 all’1 per cento di accantonamento delle importazioni all’acquisto, vedendosi costretti ultimamente a rafforzare la cogestione con partner stranieri (Cina, India e Giappone). Il Mali ha distribuito 700 stock pubblici in altrettante comunità regionali, idem Burkina Faso e Niger per grano, miglio e sorgo, secondo le indicazioni presenti nel più vasto piano della Comunità degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao). Ma ancora una volta è l’Onu a certificare l’insufficienza dei provvedimenti, per bocca del responsabile per l’Africa del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, Raymond Gilpin: “Ci aspettiamo una crisi senza precedenti per l’intero Continente”, con una stima di crescita complessiva rivista al ribasso di oltre il 50 per cento per l’anno in corso. Di qui l’aspettativa di tensioni sociali anche violente che renderanno le leadership locali più permeabili ai condizionamenti internazionali. Ahunna Eziakonwa, vicesegretaria generale dell’Onu nonché direttrice dell’Ufficio africano del Piano per lo sviluppo, ha evocato espressamente lo scenario di una ristrutturazione del debito per alcuni Stati tecnicamente falliti di cui dovrebbe farsi carico la comunità internazionale.

Una prima risposta, di carattere essenzialmente palliativo, è giunta il mese scorso dalla Fao attraverso lo stanziamento di circa 1,8 miliardi di euro per le aree del Sahel e dell’Africa occidentale, mentre l’Unione europea ha promesso 67 milioni di euro supplementari raggiungendo il tetto di 240 milioni di contributi per il 2022.

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