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Il turno di Bola: la Nigeria dopo le elezioni presidenziali

L’elettorato nigeriano conferma la leadership dell’All Progressive Congress e sceglie l’establishment per affrontare le crisi sistemiche del paese. La volata finale per Aso Rock mette in luce tutti i paradossi del gigante africano. La difficile missione del veterano Tinubu.

Scongiurando il rischio di un posticipo elettorale, la più grande democrazia dell’Africa Occidentale si è recata alle urne. Il voto del 25 febbraio ha sancito la vittoria di Bola Tinubu che siederà adesso sullo scranno più influente (e rovente) della regione, quello di Aso Rock, sede della presidenza federale della Nigeria. L’elezione di Tinubu rappresenta per molti versi la conferma dell’establishment al potere ma evidenzia al contempo i mutamenti profondi che stanno avvenendo nel paese. Tuttavia (e al netto dei ricorsi che gli avversari presenteranno nei prossimi giorni), se nel caso delle elezioni presidenziali di altri paesi come il Kenya la transizione di poteri per via elettorale può essere considerata come un successo in sé, la situazione del gigante nigeriano e le numerose problematiche interne non lasciano spazio allo stesso tipo di entusiasmo. “Jagaban” (il condottiero, soprannome di Tinubu) dovrà trovare risposte alle diverse crisi sistemiche in atto, rassicurare l’establishment che lo ha eletto e mostrare discontinuità con i predecessori, adottando un approccio più inclusivo e nella gestione della cosa pubblica. L’APC e il presidente eletto, hanno capitalizzato sulla combinazione del voto dell’establishment e su quello presso le etnie Yoruba e Hausa ma comunque nell’ambito di un’elezione che ha registrato la più bassa affluenza di sempre (27 % degli aventi diritto). Tinubu deve quindi tenere a mente uno dei principali messaggi delle elezioni: il panorama politico è più frammentato e la vecchia leadership è sempre più invisa ai giovani, che ad oggi restano la maggioranza degli elettori presenti e futuri e che hanno prediletto l’astensionismo.

Il paese dei paradossi

Partiamo dal contesto: la Nigeria è attualmente al centro di quattro crisi sistemiche fondamentali, due inerenti al settore della sicurezza interna in senso stretto e due a quello economico-produttivo. In merito alla questione securitaria, gli sforzi dell’amministrazione Buhari sono riusciti a ridimensionare notevolmente la statura e il peso dei gruppi jihadisti operanti nel paese, ma non a risolvere del tutto l’insurrezione. Attualmente le organizzazioni terroristiche operanti negli stati del nord-est vedono imperversare l’attività di due gruppi: da una parte quella della Jama’atu al-Sunna (più nota con il nome di Boko Haram) dall’altra quello della Provincia dello Stato Islamico in Africa Occidentale (ISWAP, secondo l’acronimo inglese). Se fino al 2019 la lotta tra gruppi jihadisti metteva in evidenza una certa forza delle istituzioni nigeriane, evidenziando il cambio di passo nel contrasto a Boko Haram dell’amministrazione Buhari rispetto a quella del suo predecessore Jonathan, la successiva frammentazione della galassia jihadista nigeriana ne ha messo in luce tutti i limiti. L’esercito nigeriano (ad oggi una delle istituzioni maggiormente finanziate dal governo federale) non è mai riuscito a dare la spallata definitiva ai militanti, riuscendo solo a circoscriverne il raggio d’azione ad alcune aree del paese. L’inefficienza dell’esercito nigeriano è stata paradossalmente sancita dall’uccisione del capo storico di Boko Haram, Abubakar Shekau, eliminato nel giugno del 2021 non dall’esercito nigeriano ma dai rivali dell’ISWAP nell’ambito di un’offensiva nella foresta di Sambisa (santuario dell’insurrezione bokista). Paradossalmente, il ridimensionamento dei gruppi terroristici ha aperto una nuova emergenza nel paese: quella del banditismo. Sebbene gruppi criminali di grandi dimensioni siano attivi nel paese come minimo dal 2011, il collasso delle organizzazioni jihadiste ha portato ad un incremento della sofisticazione degli attacchi ma soprattutto ad un aumento delle dimensioni dei gruppi criminali in termini di effettivi. I gruppi armati attivi negli stati del nordovest (specialmente in Katsina e Zamfara) non vanno considerati come “gang” ma piuttosto come squadroni della morte, gruppi composti da diverse centinaia di persone impegnati in operazioni criminali su vasta scala, come ad esempio l’assalto al treno Abuja-Kaduna avvenuto nel marzo 2022. La potenza di fuoco dispiegata da queste organizzazioni ha messo ulteriormente in crisi l’immagine delle forze armate ma soprattutto quella della leadership al potere. La domanda, per quanto scomoda, è effettivamente legittima: come fidarsi di istituzioni incapaci di difendere infrastrutture rilevanti come le ferrovie?

In un contesto securitario già complesso, si sono poi inserite le successive crisi economiche ed energetiche. Andiamo per gradi: se l’amministrazione uscente di Muhammadu Buhari può rivendicare di aver contrastato con maggiore serietà il fenomeno dell’insorgenza jihadista, dall’altra il suo mandato ha coinciso con la recessione della Nigeria, un tempo considerata come il gigante d’Africa ed oggi in procinto di aprire trattative complesse con i suoi creditori per la ristrutturazione del debito. Le cause alla base di questo declassamento sono molteplici: una spesa pubblica disfunzionale, una corruzione endemica (specialmente nelle istituzioni locali) e soprattutto una serie di decisioni che appaiono, come minimo, illogiche. La gestione della cosiddetta “crisi delle banconote” è abbastanza esplicativa di queste caratteristiche. Per contrastare la contraffazione delle banconote e spingere i cittadini a un maggior utilizzo della moneta digitale, la eNaira, il governo di Buhari ha deciso nell’ottobre 2022 di immettere delle nuove banconote. Tuttavia, la banca centrale nigeriana non è riuscita a immettere sul mercato il quantitativo necessario di banconote per l’utilizzo degli utenti. In termini semplici: non c’erano abbastanza nuovi soldi e i vecchi non erano più validi. Questo ha portato ad immagini da crisi finanziaria (banche prese d’assalto, file interminabili ai bancomat, proteste contro il governo). Anche la crisi della moneta evidenzia i paradossi che affliggono la Nigeria, se consideriamo come la crisi della liquidità non sia strettamente legata ai fondamentali macroeconomici quanto piuttosto alla cattiva gestione delle autorità finanziarie.

Questo tipo di paradosso è diventato, se possibile, ancora più evidente nel contesto della politica energetica. Tra i maggiori produttori di petrolio e gas del continente, la Nigeria vive sulla sua pelle e su quella dei suoi cittadini un doppio paradosso: non riesce a capitalizzare sulla vendita di combustibili fossili come in passato e non riesce nemmeno a garantire le forniture energetiche alla sua popolazione. L’avvicinarsi delle presidenziali del 24 febbraio è coinciso con l’incremento dei blackout nella capitale economica del paese, Lagos, così come una difficoltà negli approvvigionamenti del carburante nelle principali città del paese. La leadership al potere ha tenuto a giustificare questo tipo di avvenimenti in base a diversi fattori: la pandemia, l’inflazione, le insurrezioni nelle regioni del Delta. Tuttavia, questo tipo di obiezioni, anche logiche, non rispecchiano la realtà dei fatti. La pandemia può spiegare un aumento del prezzo dei carburanti, così come l’inflazione in seguito alla guerra in Ucraina, ma non può tuttavia essere una spiegazione plausibile per la scarsa fornitura di energia in sé. E con le regioni del Delta de facto pacificate, grazie anche al programma di smobilitazioni varato nel periodo della presidenza Yar’Adua, viene meno anche l’obiezione della sicurezza militare. A guardare la situazione sul campo, gran parte della crisi del settore energetico si spiega, in maniera più semplice, alla luce dello stato precario delle infrastrutture energetiche, dove, rispetto agli atti di vandalismo più o meno politicamente motivati, pesano in maggior misura gli anni d’incuria delle amministrazioni federali e locali. In questo contesto, la sfiducia della popolazione nei confronti della classe dirigente è cresciuta come non mai e il voto antisistema è apparso come una scelta pienamente giustificata. Sentimento rafforzato anche dai rumors circolati in merito ad un possibile colpo di stato dell’esercito in vista del voto, scenario che l’esercito si è affrettato a smentire.

L’elezione di Bola Tinubu

In un contesto come quello descritto sopra, la vittoria di Bola Tinubu può apparire come un paradosso tra e nei paradossi. Esponente del partito uscente, Tinubu ha costruito la propria carriera politica come procacciatore di voti nel sudovest della Nigeria (è considerato come una delle figure chiavi per la prima elezione di Buhari nel 2015) e soprattutto come ex governatore dello stato di Lagos per due mandati. In quegli anni si è guadagnato il soprannome de “il padrino” un gioco di parole, non troppo velato, che i suoi avversari usano in riferimento alla sua rete di contatti formali e informali e alle precedenti accuse di corruzione ai suoi danni. Al netto delle crisi sistemiche, il processo elettorale sembra aver quindi confermato l’establishment che ha sin qui gestito il paese, premiando con il 39,6 % dei voti il presidente eletto e il suo programma politico – avanzato sotto lo slogan di “Emi Lokan” traducibile dall’Hausa con “è il mio turno”. Stesso dicasi per il principale partito di opposizione (il Peoples Democratic Party) e il suo leader Atiku Abubakar giunto a quota sei candidature per la presidenza con il 29% dei voti. Tuttavia, nonostante l’elettorato nigeriano abbia premiato (paradossalmente) lo status quo, le ultime presidenziali non sono esenti da elementi di discontinuità rispetto al passato. In questo contesto, non si può non menzionare l’avanzata di Peter Obi, candidato del Labour Party e da molti dato come il principale competitor di Tinubu per la vittoria finale, grazie soprattutto alla sua presa sull’elettorato giovanile e alla mobilitazione dei suoi sostenitori (gli Obidients). Il partito di Obi ha modificato in maniera abbastanza radicale il panorama politico nigeriano rendendo tripartitico un sistema fino a qui fondamentalmente bipolare. È la prima volta, infatti, che il partito terzo classificato nel paese arriva alla soglia ragguardevole del 25% dei consensi se si considera i risultati non edificanti dei predecessori l’Africa Democratic Congress di Obadiah Mailafia, che nel 2019 si fermò allo 0,36%, e l’Africa Congress Party of Nigeria di Ganiyu Galadima, che nel 2015 non andò oltre lo 0,14. Al di là del dato numerico, Obi è riuscito ad ottenere una vittoria simbolica importante (e paradossale) conquistando, seppur per una manciata di voti, lo stato di Lagos fino a qui considerato come un feudo di Tinubu, una sconfitta che il vincitore delle presidenziali ha commentato in maniera lapidaria dichiarando che “a volte perdi e a volte vinci”.

Tinubu si trova quindi a raccogliere la leadership del paese con un sicuro supporto popolare e la relativa legittimità che ne deriva, ma a fronte di crisi sistemiche incalzanti che mettono a rischio l’integrità dello stato in quanto soggetto politico e geopolitico e un’ostilità serpeggiante verso pezzi dell’élite. Da dove partire per risolvere il rompicapo nigeriano?

Serve tutto, non manca niente

L’elezione di Tinubu giunge al termine di una campagna caratterizzata, oltre che dalle crisi sistemiche, dal riemergere della violenza politica. A questo si aggiunge una campagna politica che ha messo in luce una classe dirigente piuttosto timida a porre sotto i riflettori alcune questioni cruciali per il futuro del paese. Ad eccezione di Peter Obi ad esempio, in pochi hanno menzionato costantemente la lotta alla corruzione tra le priorità del governo, un tema su cui Tinubu ha risposto promettendo di implementare una più equa distribuzione della ricchezza nel paese per ridurre “la tentazione del farsi corrompere”. L’agenda del presidente eletto si pone come una prosecuzione di molte delle politiche di Buhari. Sul piano securitario, ad esempio, Tinubu ha promesso di mobilitare più uomini e più tecnologie per contrastare l’insicurezza nelle regioni settentrionali. Tuttavia non si può escludere, considerando il suo passato di “mediatore” per l’APC, che durante la sua amministrazione Tinubu non implementi una forma di dialogo con gli insorti o una redistribuzione delle risorse in ottica antinsurrezionale, magari replicando al Nord un qualcosa di simile ai programmi di reinserimento varati dalla presidenza Yar’Adua nella crisi del Delta del Niger. Per il resto, il presidente promette di risolvere i problemi della gioventù nigeriana grazie a una serie di iniziative volte ad aumentare l’occupazione e ad alcune misure economiche simil-protezionistiche per accelerare il processo di industrializzazione del paese. L’ascesa di Jagaban alla guida di Aso Rock dovrà inoltre fare i conti con il tema del dialogo interetnico e interconfessionale. Tinubu è il secondo presidente musulmano eletto consecutivamente nel paese: i musulmani nigeriani potrebbero trovarsi alla guida del paese per 16 anni consecutivi, ribadendo la fine della (desueta) regola informale che sanciva l’alternanza elettorale tra candidati cristiani e musulmani. In questo contesto diventerà importante capire come Tinubu gestirà la relazione con la comunità cristiana, che adesso sembra aver trovato un leader e un partito di riferimento nel Labour di Peter Obi. Un rapporto, questo, che parte in salita per il presidente eletto così come per l’intero establishment storico del paese, se si considera come i due partiti tradizionalmente maggioritari abbiano entrambi corso con un cosiddetto muslim/muslim ticket – cioè con due candidati musulmani per la presidenza e la vicepresidenza.

Nel paese dei paradossi, il futuro non può che partire da questi ultimi. La Nigeria contemporanea non è classificabile come un failed state, ma è sicuramente sempre più fragile a causa dell’incuria che ha caratterizzato una parte della leadership dei vecchi leoni, che adesso, per ragioni anagrafiche e politiche, dovrà gradualmente cedere il passo. Al tempo stesso, è il paese della principale industria culturale del continente, è casa-madre di una diaspora sempre più ricca (e che è stata sorprendentemente esclusa dal processo elettorale) e di una popolazione giovane e sempre più istruita. Tutti elementi che, sebbene da soli non costituiscano necessariamente gli ingredienti per una politica di potenza, sono sufficienti per la creazione di uno stato funzionale. Ripartendo da questo scenario il nuovo presidente dovrà trovare le soluzioni a diverse questioni, partendo ad esempio dall’assetto amministrativo del paese che avrebbe bisogno di essere maggiormente decentrato e federale. A questo si aggiunge poi la necessità di ammodernare e riparare le principali infrastrutture del paese e soprattutto di attuare politiche capaci di attirare i grandi capitali esteri al di fuori degli investimenti nel settore energetico. In questo senso, la vecchia élite ha dimostrato di non essere sufficientemente pronta a cogliere le opportunità che la Nigeria avrebbe in termini di soft power proprio grazie all’industria culturale, e a proiettare la propria influenza a livello come minimo regionale, analogamente a quanto fatto da altri stati in Africa (vedi il Kenya). Tinubu dovrà anche mostrarsi maggiormente proattivo nelle relazioni internazionali del paese soprattutto a livello regionale, assumendo un ruolo più incisivo in seno all’ECOWAS: un’organizzazione utile ma abbastanza trascurata da Buhari durante il secondo mandato e rispetto alla quale i partner regionali auspicano un ruolo più attivo. La Nigeria è un paese demograficamente in crescita, economicamente promettente e culturalmente vivo e potrebbe agire come guida per gli altri stati dell’Africa occidentale. Questo è il paradosso fondante della Nigeria odierna. Un paese a cui in questo momento serve tutto ma in cui potenzialmente non manca niente.

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