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Kosovo e Serbia richiamano l’attenzione sui Balcani occidentali

Cause e possibili sviluppi delle recenti tensioni tra Kosovo e Serbia. L’importanza della stabilità dei Balcani Occidentali per la sicurezza Europea. L’analisi di Antonio Stango

Benché siano passati più di 14 anni dalla dichiarazione di indipendenza del Kosovo dalla Serbia, e 23 da quando la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU segnò la fine della guerra nella regione, le tensioni tra Belgrado e Pristina sono a volte sul punto di riesplodere. L’ultimo incidente che ha fatto temere che si potesse tornare a un conflitto armato è stato, fra il 31 luglio e il 1° agosto, il tentativo da parte del governo del Kosovo di imporre – per reciprocità rispetto alla Serbia – due misure amministrative che in quel contesto assumono una portata molto maggiore di quanto potrebbe sembrare all’esterno.

Poiché la Serbia non riconosce i documenti di identità rilasciati dal Kosovo, chi arrivi in Kosovo presentando un documento serbo dovrebbe ricevere in sua sostituzione un documento temporaneo kosovaro, valido per 90 giorni; e poiché la Serbia sostituisce temporaneamente le targhe automobilistiche con la sigla del Kosovo a chi provenga da quel confine, la stessa cosa dovrebbe avvenire per chi entri in Kosovo con un veicolo munito di targa serba. Il Kosovo aveva già tentato di imporre nel Paese la sostituzione delle targhe serbe con targhe proprie nel settembre 2021, ma questo aveva causato dieci giorni di proteste nella provincia settentrionale in cui l’etnia serba è maggioritaria, con alcuni episodi violenti e minacciosi movimenti di forze armate serbe presso il confine. Solo la mediazione dell’UE aveva portato a un accordo per una soluzione provvisoria della ‘crisi delle targhe’ (con la decisione di coprire con degli adesivi i simboli sulle targhe della Repubblica del Kosovo in territorio serbo e quelli della Serbia in territorio kosovaro); ma in aprile il Kosovo ha preso atto del rifiuto da parte serba di risolvere la questione in modo permanente e ha quindi ripreso la strada delle misure di reciprocità.

Il punto è infatti proprio questo: la Serbia non può ammettere il richiamo al principio di reciprocità, comune nel diritto internazionale, da parte del Kosovo, poiché non è tra gli oltre 100 Stati che lo riconoscono come Stato indipendente e continua a considerarlo, anche in Costituzione, una propria provincia; mentre per il Kosovo si tratta di una manifestazione di sovranità irrinunciabile, se non temporaneamente in accordo con mediatori esterni quale l’UE. Così è avvenuto anche questa volta: dopo manifestazioni, blocchi stradali, dichiarazioni durissime da parte serba e accuse al Kosovo da parte del governo russo di pianificare l’espulsione dei cittadini di etnia serba, con la mediazione dell’UE il Kosovo ha deciso di rimandare l’entrata in vigore di quei provvedimenti al 1° settembre. È tuttavia evidentemente improbabile che si giunga entro quella data a un accordo definitivo in materia.

Nella sua posizione, la Serbia è sostenuta soprattutto da Federazione Russa e Cina (senza il cui consenso al Consiglio di Sicurezza nessun nuovo Stato può essere ammesso alle Nazioni Unite); ma a non riconoscere il Kosovo sono anche cinque membri della stessa UE cui vorrebbe un giorno aderire. Entrambi gli Stati, d’altra parte, hanno con l’UE rapporti molto stretti, con relativi benefici economici, e la Serbia ha ottenuto fin dal 2012 lo status di Paese candidato all’adesione; sono quindi impegnati formalmente a rispettarne i pilastri fondamentali, fra i quali ha particolare rilievo la non discriminazione delle minoranze, e accettano il suo ruolo chiave per la sicurezza, la stabilità e lo sviluppo della regione. Il Kosovo inoltre ospita la Missione dell’UE sullo Stato di diritto denominata EULEX, oltre che la United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK) e la Kosovo Force (KFOR) della NATO, presente sul campo con circa 3.800 effettivi.

Nell’aprile 2013 a Bruxelles i rappresentanti di Serbia e Kosovo avevano anche firmato, dopo anni di tentativi di dialogo e con la mediazione dell’UE, un trattato sui “Princìpi che governano la normalizzazione delle relazioni”, che effettivamente ha consentito il superamento di molte divergenze; ma alla fine di marzo di quest’anno il presidente serbo Aleksandar Vučić ha dichiarato di non considerarlo più valido, accusando di violazioni le autorità del Kosovo. Il fatto che questo sia avvenuto poche settimane dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina potrebbe essere non casuale e corrispondere a un interesse del governo russo a elevare il livello di tensione nei Balcani occidentali per costringere NATO e UE ad occuparsi di un ‘secondo fronte’, come ipotizzato da molti osservatori. La Serbia, infatti, ha sì votato le due Risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’ONU per il ritiro delle forze russe, ma ha rifiutato di unirsi alle sanzioni, mantenendo con Mosca una relazione molto amichevole con frequenti incontri ad alto livello: un atteggiamento distante dalla Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) dell’UE, alla quale pure i Paesi candidati all’adesione sarebbero tenuti ad allinearsi.

Sia il Kosovo che la Serbia hanno negli ultimi anni aumentato progressivamente il budget per la difesa, ma fra i due Stati la sproporzione è evidente: la Forza di Sicurezza del Kosovo (ufficialmente non ‘forza armata’, cosa non consentita dall’attuale Costituzione) è dotata solo di armi leggere e ha attualmente solo 2.500 militari attivi e 800 riservisti, mentre la Serbia ha non meno di 25.000 militari in servizio fra esercito e aeronautica e 50.000 riservisti; e recentemente ha acquistato armamenti anche da Federazione Russa e Cina. Un’eventuale protezione militare del Kosovo in caso di conflitto non potrebbe, dunque, che essere assicurata dalla NATO.

Una nuova guerra nei Balcani non è nell’interesse di alcuno Stato della regione; ma soffiare sulle tensioni interetniche (in questo periodo riacutizzatesi anche nella vicina Bosnia e Erzegovina, dove sono previste elezioni il 2 ottobre con un sistema elettorale contestato da più parti) potrebbe sembrare conveniente nel breve termine a qualche leader politico. L ’UE e i suoi Stati membri dovranno tornare in queste settimane a prestare ai Balcani occidentali la massima attenzione, usando nel modo più attento la propria influenza per ridurre al minimo gli elementi di conflittualità ed evitare che le crisi divengano incontrollabili.

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