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Libia, da Parigi ribadita la necessità del voto

Dalla Conferenza internazionale di Parigi esce una voce unanime: la Libia deve andare alle urne. Ma non mancano ostacoli e preoccupazioni. L’analisi di Daniele Ruvinetti

Hussein Eddeb/Shutterstock.com

La Conferenza internazionale di Parigi, grazie in primis al lavoro politico dell’Italia, di concerto con quello di Francia e Germania, ha dato una spinta al processo elettorale in Libia. La voce uscita è stata unanime: si deve procedere con il voto, sia presidenziale che parlamentare, perché senza il voto si rischiano conseguenze pesanti, complicate, per certi versi incontrollabili. Le divisioni stanno già venendo a galla, e senza le elezioni il rischio è che queste diventino oggetto di scontro in un paese in cui le armi sono state troppo spesso la soluzione principale.

È certo che un governo, un presidente e un nuovo parlamento eletti avranno una maggiore forza nella gestione delle divisioni libiche e una maggiore capacità di procedere all’unificazione delle strutture interne (e delle ripartizioni economiche e sociali conseguenti), e saranno più influenti nel ricostruire l’architettura di sicurezza interna – anche attraverso l’espulsione delle unità militari straniere. Quest’ultimo, peraltro, è stato uno dei grandi temi trattati dalla Conferenza: non è plausibile pensare che certe forze schierate sia in Cirenaica sia in Tripolitania possano abbandonare il paese prima del voto, sebbene auspicato dall’Onu; tuttavia, è molto probabile che dopo le elezioni attori come Stati Uniti e Unione Europea potrebbero attribuire alla questione un peso diplomatico maggiore.

Da qui deriva una preoccupazione emersa durante la riunione di Parigi: i risultati elettorali saranno accettati da tutte le parti? La presenza di forze straniere (a uso e consumo di attori che spesso hanno più a cuore i propri interessi che quelli dei libici) è un elemento di rischio, certamente. La Conferenza ha ribadito la necessità di essere consapevoli riguardo al voto: la scelta dei libici che uscirà dalle urne sarà quella definitiva sul futuro della Libia, perché espressa dai suoi cittadini. Ed è dunque necessario che gli attori interni frenino eventuali impulsi, e che la Comunità internazionale (su tutti l’Unione Europea) dia massimo supporto ai vincitori.

Le prime candidature arrivate sono state, intanto, quelle del generale della Cirenaica Khalifa Haftar e di Saif al Islam al Gheddafi, figlio dell’ex rais: due nomi che hanno generato subito polemiche e proteste. Il rischio evidente è quello di un’ulteriore spinta alla divisione tra Est e Ovest, che si sta riproducendo negli ultimi mesi, con la potenziale creazione (ancora una volta) di un governo orientale, così come di una compagnia petrolifera e una banca centrale regionali. L’opposto di quello che serve ai libici e alla Libia, dove l’inclusività e l’avvio di una reale fase di riconciliazione sono invece gli ingredienti necessari per evitare il ritorno della violenza. Inclusività e riconciliazione che devono essere anche base di partenza per le elezioni, alle quali chiunque soddisfi i requisiti posti dalla Commissione elettorale ha diritto di partecipare, anche per dare un segnale di opportunità e forza democratica al paese.

Un discorso a sé va fatto a proposito della candidatura di Saif al Islam, che ha potenzialità derivanti dall’influenza che la sua figura (ossia la sua discendenza) esercita tuttora su varie tribù in aree come Sirte, Bani Walid o al sud (basti pensare che ha presentato la propria candidatura a Sebha, territorio centro-meridionale sotto il controllo di Haftar). La condanna contro di lui del tribunale di Tripoli è stata sanata da un’amnistia accordata dal Parlamento libico (per questo motivo ha potuto presentare la propria candidatura), ma il problema per lui potrebbe essere la procedura aperta dalla Corte penale internazionale dell’Aia.

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