Approfondimenti

7 Ottobre un anno dopo. Il forum di Med-Or

Ad un anno dal tragico attentato di Hamas, Med-Or ha rivolto alcune domande a quattro esperti di politica internazionale, per riflettere sulle conseguenze degli attacchi terroristici e le prospettive del Medio Oriente dopo un anno di guerra

Gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023 hanno rappresentato una cesura storica e impresso una svolta radicale negli equilibri del Medio Oriente. Un evento drammatico e sanguinario che ha sconvolto il mondo e colpito tragicamente lo Stato di Israele. Il conflitto esploso nei giorni successivi ha dato il via ad una spirale di eventi e violenze che stanno contribuendo a ridefinire il quadro già in trasformazione del Medio Oriente, con serie conseguenze per l’intero pianeta.

Partendo dai più recenti avvenimenti, Med-Or ha rivolto alcune domande ad alcuni esperti italiani di politica internazionale e sicurezza: Niccolò Petrelli, docente di Studi Strategici presso l’Università degli Studi Roma Tre, Giorgio Cella, Analista di politica internazionale e autore di "Storia e geopolitica della crisi ucraina", Germano Dottori, Consigliere scientifico di Limes e membro del Consiglio di Amministrazione di Med-Or e Anna Maria Cossiga, vicedirettrice dell’Unità Analisi di Med-Or.

L’obiettivo è quello di fornire un quadro, a più voci, sull’impatto che ha avuto l’attacco del 7 ottobre rispetto al già fragile equilibrio internazionale, cercando di evidenziare le implicazioni per il Levante e per il più ampio teatro del Mediterraneo, anche in considerazione delle azioni dei principali attori globali, tra cui Stati Uniti, Cina, Russia e paesi del Golfo.

A un anno dall’attacco terroristico di Hamas del 7 Ottobre 2023, quali sono state le conseguenze dell’attacco e del conflitto esploso nel quadro geopolitico del Medio Oriente odierno?

Nicolò Petrelli: “Il cambiamento più evidente a mio avviso riguarda la dinamica del conflitto tra Israele ed Iran, ed è emerso negli ultimi due mesi quando Israele ha iniziato a esercitare pressione più intensa e continua su Hezbollah. Dopo molti mesi di guerra brutale a Gaza l’attacco senza precedenti portato al “Partito di Dio” e alla sua leadership segnala quello che potremmo chiamare un “cambio di paradigma” strategico. Negli ultimi 10/12 anni Israele ha portato avanti, essenzialmente, una strategia di deterrenza difensiva e contenimento contro l’Iran e i suoi proxies, Hezbollah in primo luogo e, seppur in maniera sui generis, Hamas. Questa strategia è sempre stata incentrata sulla “gestione del conflitto” ovvero sull’accettazione che i propri avversari disponessero di capacità offensive anche non trascurabili (si pensi alle capacità missilistiche) in cambio di una deterrenza stabile e di livelli di violenza relativamente bassi e tollerabili. Essa ha fallito in maniera evidente il 7 ottobre 2023 e dopo una lunga fase di incertezza, sembra che Israele abbia optato per passare all’offensiva strategica contro l’alleanza iraniana. Come accennato sopra, da luglio si è assistito ad una transizione, sia concettuale che pratica, verso una guerra offensiva di lungo corso nei confronti dell’Iran. Iran che, per parte sua, sembra invece orientato a seguire, nonostante il durissimo colpo subito da Hezbollah, una strategia di guerra per procura a bassa intensità analoga a quella degli ultimi anni”.

Anna Cossiga: “Le conseguenze, purtroppo, sono sotto gli occhi di tutti: i morti a Gaza sono più di 40mila, la Striscia è pressoché distrutta e ricostruirla richiederà molto, molto tempo, le condizioni umanitarie sono pessime, a dir poco. La domanda, però, che continuo a pormi, da quel 7 ottobre, è: che cos’altro avrebbe potuto fare Israele, dopo l’orribile massacro di cui è stato oggetto? Il mondo occidentale l’ha appoggiato immediatamente, per poi criticarne gli eccessi, il resto del mondo l’ha condannato, senza trovare il coraggio di condannare con altrettanta forza gli orrori di Hamas. I proxy dell’Iran hanno agito subito: Hezbollah ha iniziato a colpire il nord di Israele lo stesso 8 ottobre, gli Houthi hanno colpito e colpiscono nel Mar Rosso, anche gli sciiti iracheni filoiraniani e i siriani agiscono. L’Asse della Resistenza è corsa in aiuto dei fratelli palestinesi. Persino gli iraniani hanno attaccato direttamente il territorio israeliano; certo, avvisando preventivamente, così da evitare una guerra totale che nessuno vuole. Ma si sa da decenni che il Medio Oriente è una polveriera pronta a scoppiare e basta la più piccola scintilla perché accada”.

Giorgio Cella: “Il primo anniversario dell’attacco terrorista di Hamas del 7 ottobre 2023 cade in uno scenario non solo mediorientale ma mondiale drasticamente mutato, aggravatosi con l’escalation tra Israele, Libano e Iran in corso mentre parliamo. Tornando invece con uno sguardo sintetico sulle dinamiche consequenziali occorse in seguito al 7 ottobre, osserviamo in primis, sul piano macro, una ulteriore degradazione della stabilità globale con due devastanti scenari di violenza bellica prolungata – uno in Europa centro-orientale con epicentro l’Ucraina, affiancato ora dall’altro a Gaza e, recentemente, in Libano. Conflitti che ad oggi non vedono all’orizzonte nessun tipo di risoluzione né di tregua, ancor meno di possibili risoluzioni negoziali. Una accentuata anarchizzazione e apolarità del sistema internazionale e una sempre meno rilevante capacità di influire della diplomazia globale nelle sue varie forme, Nazioni Unite in primis, il cui segretario generale è financo finito nella lista delle persone non grate in Israele. Non è il caso di ripetere qui le banali critiche sulle Nazioni Unite che non contano nulla o cose simili. Va piuttosto osservato come i meccanismi strutturali e decisionali dell’ONU risultino oggi anacronistici e rispecchianti solo in parte gli equilibri di forza mondiali odierni. Una volatilità globale della sicurezza che sta perciò crescendo in una entità che vive ormai di vita propria, che, come un golem, prende forma e che rischia di non essere più tenuta a bada. La domanda a cui nessuno può rispondere, ma che va comunque posta, è il destino ultimo di questa spirale di instabilità: dove atterrerà infine questa scia di caos bellico? Tenendo tale macro-questione sullo sfondo, veniamo invece ora alle conseguenze più locali. La risposta militare di Israele condotta da Netanyahu contro Hamas a Gaza, con il suo carico distruttivo in termini umanitari e materiali, ha avuto come scopo principale la deterrenza, intesa come il voler irradiare e imprimere terrore alle forze ostili della regione, al fine da inibire da eventuali nuove azioni ostili. Questo non ha però impedito azioni militari da parte del cosiddetto asse sciita, a partire dai lanci di missili di Hiz’ballah dal Libano, territorio sul quale si è infatti abbattuta la risposta di Netanyahu con la decapitazione dei suoi vertici, incluso la sensazionale eliminazione dello storico capo del movimento Nasrallah, e la destabilizzazione della parte sud del paese con alti numeri di sfollati. Alle azioni militari di Israele, che ha dal suo punto di vista ottenuto importanti risultati, continua a sfuggire il senso ultimo, ossia l’endgame politico, ma forse, per ora, tali operazioni hanno prevalentemente una logica prettamente militare, di deterrenza e di allontanamento del rischio per la propria sicurezza nazionale, come sopra accennato. I piani politici di lungo termine rimangono per ora in parte velati. Detto ciò, in conclusione, rebus sic stantibus, parlare di guerra regionale non sarebbe preciso, in quanto oltre ai due stati dell’allineamento sciita, Libano e Iran, nessun’altra nazione della stragrande maggioranza sunnita dell’area ha dato segni di voler entrare in qualche modo nel conflitto”.

Germano Dottori: “Sono molteplici e profonde. In realtà, il Medio Oriente era entrato in una fase di riassetto già nel 2020, con la firma dei quattro accordi di Abramo mediati dal presidente Trump. Il cosiddetto “asse della resistenza”, che ha il suo perno nell’Iran, si è messo in movimento per neutralizzarli e rendere impossibile una riorganizzazione della geopolitica regionale fondata sul mutuo riconoscimento di Israele e dei paesi arabi ostili all’Islam Politico. Il tentativo ha avuto temporaneamente successo, perché non si è ancora riusciti a perfezionare la “madre di tutte le intese”, quella tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita. Il processo presumibilmente riprenderà, ma non prima che Israele abbia degradato sensibilmente le capacità dei suoi nemici. Hamas è in difficoltà, mentre l’Hezbollah è stato privato dei propri vertici politico-militari e rischia il collasso. Resta in piedi la Repubblica Islamica d’Iran, che ha recentemente scagliato quasi duecento missili balistici contro Israele. Gerusalemme risponderà sicuramente, seppure non sia ancora dato sapere come, poiché in ballo c’è anche la sorte di quegli iraniani che auspicano un netto cambio di direzione alla testa del proprio paese. È a questa parte della Persia che si è recentemente rivolto con un proprio videomessaggio il premier Netanyahu”.

Quale è stata la portata dell’attacco del 7 ottobre per la società israeliana?

Anna Cossiga: “L’attacco è stato uno shock che, difficilmente, chi non è israeliano ed ebreo può capire del tutto. La prima reazione è stata paragonare l’attacco alla Shoah e Hamas ai nazisti, poi si è parlato di pogrom. Per gli israeliani e gli ebrei la storia, quella storia, è quasi impossibile da dimenticare, è un incubo che ritorna, anche se lo stato ebraico è stato creato proprio perché quanto accaduto non accada più. Vedere 1200 persone uccise barbaramente, parti di territorio occupato, 250 ostaggi, tra cui anziati e neonati trascinati come ostaggi a Gaza, dev’essere stato un angosciante déjà vu. Razionale o no che sia pensare che davvero Israele, uno degli stati militarmente più forti del mondo, possa essere davvero distrutta dai paesi nemici, è questo che gli israeliani hanno temuto. Passato lo shock, ha cominciato a bruciare l’umiliazione di essere stati colti impreparati e la risposta è stata dirompente. Non dimentichiamo le parole pronunciate da Moshe Dayan: Israele deve essere percepitodal nemico come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato”. Probabilmente, Yahya Sinwar le conosceva e ha deciso di disturbare il cane che in quel momento dormiva. Sapeva come avrebbe reagito, per questo lo ha disturbato. All’inizio, gli israeliani hanno reagito unendosi compattamente contro l’aggressore, ma un anno di guerra è lungo, più di cento ostaggi sono ancora nelle mani dei gruppi islamisti palestinesi (di cui forse una trentina vivi), soldati e riservisti sono prostrati, mentre altri due fronti di guerra sono aperti in Cisgiordania e in Libano, per non parlare degli attacchi dallo Yemen. Senza contare quello che definisco un quarto fronte, le violenze e gli attacchi contro innocenti palestinesi in Cisgiordania da parte di coloni estremisti che, ahimè, raramente vengono puniti. La tenuta sociale vacilla, il “terrorismo interno” aumenta, mentre il governo stenta a decidere quale sarà “il dopo Gaza” e ministri estremisti farneticano un giorno sì e uno no, parlando di far morire di fame i gazawi, di deportarli e di ricolonizzare la Striscia. Netanyahu teme che l’esecutivo crolli, sembra sempre di più ostaggio lui stesso di alcuni suoi ministri, mentre la vittoria totale non è stata ancora raggiunta. Mesi difficili, per gli israeliani”.

In che misura l’attuale situazione può influire sulla politica interna di Israele?

Anna Cossiga: “L’uccisione di Ismail Haniyeh in Iran e, nei giorni scorsi, le esplosioni di cercapersone e walkie-talkie in Libano, insieme all’assassinio di Hassan Nasrallah nel suo quartier generale a Beirut hanno fatto risalire le azioni di Netanyahu e, certamente, il morale degli israeliani. Credo che sia anche importante notare l’assoluta inazione dell’opposizione, tranne forse qualche reazione da parte di Lapid, del partito Yesh Atid, che si era rifiutato di fare parte del governo di unità nazionale all’inizio della guerra, al contrario di Benny Gantz che, dopo qualche mese, ha abbandonato la nave. Certo, alla fine della guerra – chissà quando – Netanyahu avrà molto di cui rispondere, soprattutto della sorte degli ostaggi. Buona parte della popolazione lo critica aspramente per non averli ancora riportati a casa, mentre 70mila sfollati al confine con il Libano vogliono fare ritorno alle proprie case. Sinceramente, non riesco a fare una previsione politica sul dopo Netanyahu; se ci sarà un dopo Netanyahu. La strada da percorrere sembra ancora molto lunga e il pantano in cui Israele si trova difficile da attraversare”.

Alla luce delle ultime notizie, quale pensa possa essere l’obiettivo strategico che intende perseguire Israele nel prossimo futuro?

Nicolò Petrelli: “L’obiettivo strategico finale rimane al momento incerto, ambiguo e mal definito, come spesso è accaduto nella storia della strategia di sicurezza nazionale israeliana. La formulazione di “vittoria totale” avanzata dal primo ministro Netanyahu sembra possa considerarsi uno slogan intorno a cui creare consenso e mobilitare la società, ma come costrutto-guida per lo sviluppo di una strategia di lungo corso appare vuoto, dal momento che una “vittoria totale” equivarrebbe a un rovesciamento del regime iraniano, l’eliminazione di Hamas come attore politico da Gaza, e lo sradicamento di Hezbollah dal libano, obiettivi chiaramente non realisticamente perseguibili”.

Germano Dottori: “Israele deve innanzitutto rassicurare i propri cittadini, per evitare che una parte più o meno grande di loro lasci il paese. La promessa di una vita sicura e serena fatta a tutti gli ebrei che vanno a vivere in Terra Santa deve essere rinnovata e garantita. È anche per questo motivo che abbiamo assistito ad una risposta tanto dura nei confronti di Hamas e dell’Hezbollah. Chi attacca Israele deve esser certo che pagherà un prezzo alto per averlo fatto. E i cittadini israeliani hanno bisogno di verificare che le basi della potenza del loro paese non siano state intaccate. Il nodo critico ora è ovviamente l’Iran. Nei suoi confronti esiste la necessità di ristabilire una forma credibile di dissuasione. Ma è forte anche la tentazione di agevolare dall’esterno un cambio di regime, al quale certamente qualcuno sta lavorando con tutta la prudenza del caso. Ecco perché il confezionamento della reazione israeliana agli ayatollah sta comportando una lunga fase preparatoria: si tratta di raggiungere la proverbiale quadratura del cerchio. Il regime deve essere indebolito, ma non gli deve esser servita su un piatto d’argento la possibilità di giocare la carta nazionalista per rilegittimarsi. Ecco perché si guarda ai terminali petroliferi, che oltretutto servono più ai cinesi che all’Occidente. Gli impianti nucleari porrebbero invece alcuni problemi, anche in termini di possibili contaminazioni di territori attigui più o meno ampi. Naturalmente le basi militari sono ulteriori obiettivi: per certi versi, quelli più scontati”.

Quali sono i rischi principali collegati da un allargamento del conflitto in Libano?

Anna Cossiga:La morte di Nasrallah è un game changer fondamentale. Il “diavolo” non c’è più, gli alti ranghi del movimento sono stati eliminati, il Partito di Dio è umiliato e confuso; ma esiste ancora e può riorganizzarsi, anche se ci vorrà del tempo. I bombardamenti di Israele sul Libano continuano evi sono stati scontri e movimenti di truppe dell’IDF all’interno del paese. Non dimentichiamo che, durante la guerra in Libano del 2006, Tel Aviv ha messo in atto quella che è poi stata definita la Dottrina Dahiya, dal nome del quartiere di Beirut che ospitava, e ospita, il centro nevralgico di Hezbollah, a cui solo i membri del gruppo hanno accesso. La dottrina prevede una serie di attacchi sproporzionati rispetto alle azioni dei nemici, il cui scopo è causare il massimo danno alle infrastrutture, comprese abitazioni civili, scuole e ospedali che ospitano siti di lancio, depositi di armi ecc.. Sembra siano i principi alla base non solo degli attuali attacchi in Libano, ma anche a Gaza. Del resto, l’uccisione di Nasrallah è avvenuta proprio a Dahiya e l’attacco ha causato il crollo di sei palazzi, che non ospitavano soltanto membri di Hezbollah. Ciò che preoccupa, mi sembra, non è tanto una guerra in Libano, ma la reazione dell’Iran a quanto accade. Con la morte di Nasrallah, Teheran ha perso non semplicemente un proxy, ma un importantissimo alleato, un consigliere strategico, quasi un suo doppio sullo scacchiere mediorientale. Teheran si trova in un momento molto difficile. La morte di Haniyeh, ucciso da Israele sul territorio iraniano, non è ancora stata vendicata e quella di Nasrallah dovrà esserlo, in qualche modo. Anche il vicecapo delle Guardie Rivoluzionarie è stato ucciso a Beirut e la repubblica islamica ha annunciato che la sua morte non resterà impunita. Gli Stati Uniti temono un intervento diretto contro Israele, che avrebbe una risposta certa e dirompente e potrebbe trascinare anche Washington in un conflitto, che certo non vuole. Nemmeno Teheran lo vuole, perché credo sia ben consapevole dei propri limiti. Forse l’unico a volerlo è Netanyahu, per cui combattere l’Iran è una vera e propria ossessione da decenni. Forse gli Stati Arabi, che certo non amano la repubblica islamica, sono d’accordo con Tel Aviv, ma uno scontro del genere sarebbe davvero dirompente per la regione e potrebbe avere ripercussioni ben al di là di essa. Temo che possiamo solo aspettare lo sviluppo degli eventi”.

Quale è stato e quale potrebbe essere il ruolo dell’Iran, anche alla luce delle operazioni odierne in Libano?

Germano Dottori: “In questa vicenda, il ruolo effettivo dell’Iran conta meno di quello percepito. Se a Gerusalemme si è convinti che tutto ciò che è successo in Medio Oriente dal 7 ottobre 2023 in avanti è opera diretta o indiretta del regime che comanda a Teheran, poco importa che sia stato o meno così. Se ne impone in ogni caso l’indebolimento. La narrazione adottata dalle autorità israeliane in occasione del primo anniversario del pogrom va in questa direzione”.

Gli avvenimenti sul campo di battaglia e le modalità con cui sono state condotte da entrambe le parti molte operazioni, offrono diversi spunti di riflessione sul versante strategico-militare. Ci sono delle lezioni particolari che si possono apprendere e analisi specifiche che si possono fare in merito alla conduzione delle operazioni da parte di entrambe le parti in guerra? Si può parlare di guerra ibrida?

Nicolò Petrelli: “A mio avviso due sono le lezioni fondamentali di un anno di conflitto. La prima riguarda le opportunità, i limiti e i dilemmi etici dell’applicazione di tecnologie emergenti a problemi militari, emersi con evidenza prima nell’incapacità del sistema di raccolta informativa incentrato su IA israeliano nel prevedere l’attacco del 7 ottobre, poi nel sistema Lavender impiegato per l’identificazione continua di bersagli per le operazioni aeree, che si è mostrato efficace ma discutibile nelle modalità di funzionamento. La seconda lezione riguarda la questione del cambiamento nella guerra moderna. Mi sembra che al di là di alcuni aspetti, come ad esempio quello dell’IA, non stiamo assistendo a cambiamenti significativi né nella natura, né nel carattere della guerra, che si mostra nuovamente, in forte continuità con modelli e schemi da anni noti”.

Prima dello scoppio della guerra sembrava imminente un accordo tra Israele e Arabia Saudita. Lei crede vi sia ancora spazio per Israele per una normalizzazione delle relazioni con il regno saudita e una maggiore integrazione economico-commerciale, alla luce di quanto è accaduto in quest’anno? E con gli altri paesi del Golfo, quale è lo stato delle relazioni in corso?

Giorgio Cella: “È sempre corretto ricordare, e ci si riallaccia altresì alla prima risposta, come alla base delle nuove pericolose turbolenze in Medioriente scoppiate in seguito agli attacchi del 7 ottobre, oltre alle conseguenze di una guerra decennale tra Israele e Palestina e la ricerca da parte di quest’ultima di una soluzione statuale, troviamo altresì la più recente quanto centrale questione degli Accordi di Abramo, che prendono il nome dalla significativa figura archetipica del patriarca ebraico, principale figura unificatrice delle fedi abramitiche e delle antiche genti semitiche. Questo nuovo corso per il Medioriente fu pianificato dall’amministrazione Trump – poi continuata anche negli ultimi quattro anni da quella democratica di Biden – con una importante impronta anche del genero del presidente Jared Kushner, per creare nuove e durature sinergie politico-economiche in Medioriente, tra Israele e i vari stati della regione, per liberare le enormi potenzialità economiche e di sviluppo che giacciono nell’area. Qualcosa che l’Iran del regime degli Ayatollah non vedeva certo di buon occhio, insieme ai suoi alleati sciiti. L’assalto del 7 ottobre di Hamas, oltre alla mera resistenza a oltranza verso Israele, ha rappresentato anche un tentativo di fare crollare lo sviluppo dei rapporti in corso tra Israele e i Paesi del Golfo coinvolti in minore o maggiore misura nelle intese di Abramo, Arabia Saudita in primis, con la quale la dirigenza di Israele aveva cominciato ad intessere rapporti diplomatico-commerciali promettenti. È chiaro che nella situazione venutasi a creare oggi, gli stati dell’area che avevano iniziato questo avvicinamento a Israele, hanno per ora congelato o fermato quella spinta sinergica, nel timore di reazioni delle proprie masse interne che, con differenti gradazioni, solidarizzano in generale con la causa palestinese. Bisogna però, da ultimo, vedere la situazione in un’ottica più generale, e più sul lungo periodo (per quanto è possibile): per vari attori mediorientali Teheran rimane un centro destabilizzante e anche eterodosso sul piano religioso (se non scismatico) – sebbene in questi stati vi siano differenze sia interne al mondo sciita che a quello sunnita, in questa sede non esplorabili – dunque il suo indebolimento sul piano militare per mano israeliana può anche essere visto con interesse, e la benevola neutralità di questi stati sunniti nelle prime fasi di un conflitto destinato a protrarsi nei prossimi mesi, confermano l’allineamento di fondo nell’orbita occidentale di Riyadh, Abu Dhabi e Amman. Gli Emirati Arabi Uniti, lo ricordiamo, insieme al Bahrein, hanno normalizzato, proprio con gli accordi abramitici sopracitati del 2020, i propri rapporti con Israele. Nel lungo periodo, dunque, sebbene per ora messi in stand by, anche quei legami economici e di integrazione commerciali messi in moto con gli Accordi di Abramo potranno plausibilmente riprendere. Ciò dipenderà tuttavia naturalmente dall’esito militare ad oggi oscuro del conflitto in corso”.

Come valuta il ruolo di Iran e Cina svolto in questo anno di conflitto, anche alla luce della nuova leadership iraniana?

Giorgio Cella: “La Cina come noto, nel suo nuovo slancio globale anche diplomatico, aveva tentato nel 2023 di portare a sua volta a una normalizzazione dei rapporti storicamente conflittuali tra Arabia Saudita e Iran, anche nel tentativo di trascendere quelle sanguinarie tensioni storiche di natura confessionale tra sciiti e sunniti. Purtroppo, lo scorrere degli eventi che vediamo oggi, ha indebolito quella spinta al dialogo con l’Iran degli Ayatollah, riducendone per forza di cose il suo impatto sul medio lungo termine. Detto ciò, la posizione di Pechino di leader del nuovo fronte alternativo all’occidente euroatlantico a guida statunitense, noto come sud globale, rimane di diffidenza verso ogni grand strategy portata avanti da Washington, in questo caso nel suo progressivo coinvolgimento in termini di deterrenza a fianco di Israele, dove un eventuale crollo del regime iraniano – come ormai auspicato più volte pubblicamente da Netanyahu – rimuoverebbe un centro di potere regionale vicino a Pechino. Detto ciò, dall’altro lato, un coinvolgimento più ampio occidentale in Medioriente – stesso discorso che può essere fatto sul fronte dell’Europa centro orientale in Ucraina – rappresenta un vantaggio strategico per Pechino, ossia una maggiore distrazione dal fronte Asia-Pacifico e una minore mobilitazione di forze e attenzione geopolitica verso quello che i cinesi vedono come la loro imprescindibile sfera di influenza regionale, questione di Taiwan in primis. Detto ciò, concludo ricordando come la pazienza strategica cinese, il suo saggio attendismo (di derivazione anche culturale confuciana), le farà difficilmente commettere errori di sovraesposizione in teatri importanti ma non vitali per la sua sicurezza e interesse strategico, e credo altresì che il nuovo corso di negoziatore diplomatico globale intrapreso dalla Cina prosegua, in attesa degli sviluppi politico-militari in Medioriente, così come in Ucraina. Per quanto riguarda l’Iran invece, si potrebbero dire moltissime cose oltre a quelle già esplicate nelle precedenti risposte. Qui in sintesi tuttavia, è plausibile affermare che fondamentale il regime degli Ayatollah in questo conflitto si gioca semplicemente il proprio futuro, la propria sopravvivenza politica, in una posizione di assoluta delicatezza, schiacciata da tre lati dalla pressione militare dello Stato ebraico sempre più forte, dal dover dare risposte militari per la propria reputazione e nei confronti dei vari alleati regionali, e dal non irrilevante fattore domestico del malcontento interno. Anche le dichiarazioni sul "non volere la guerra" a seguito del massiccio lancio di missili contro Israele, indicano le remore profonde e i dubbi esistenziali che albergano nei cuori dei vertici della teocrazia politica iraniana nel voler davvero discendere negli oscuri meandri di un confronto militare totale con Israele”.

Quale ruolo ha avuto la Russia, nei mesi del conflitto e quale potrebbe avere in prospettiva anche rispetto ai suoi interessi nella regione?

Giorgio Cella: “Mosca ha da sempre considerato il Medioriente un importante teatro regionale – se non altro per questioni meramente geografiche e di vicinanza con lo storicamente delicato quanto turbolento Caucaso settentrionale russo a maggioranza islamica – dove proiettare la propria presenza diplomatica e geopolitica, pensiamo solo al periodo della Guerra Fredda. Nel suo ruolo odierno da co-protagonista insieme a Pechino del nuovo fronte del sud globale, e di alleato di lunga data dell’Iran, si trova in una situazione di non facile gestione, anche alla luce dei rapporti particolari in essere con Israele, così come alla luce di quelli personali tra Putin e Netanyahu, così come per la presenza in Israele di oltre un milione e mezzo di russofoni. Gli interessi della Russia nel conflitto in corso rischiano di essere intaccati non solo nell’eventualità di un regime change in Iran, ma anche per le posizioni così duramente conquistate nella vicina Siria, dove fu proprio grazie e solo tramite l’intervento del Cremlino che l’attuale leadership alawita della dinastia degli Al Assad ora incarnata all’attuale presidente Bashar Al Assad, ha potuto rimanere al potere, evitando fini similari a quella di Gheddafi in Libia. La notizia, non confermata, della uccisione di Maher Al Assad in Siria, fratello del presidente Bashar, è un brutto segno per Mosca, che a un certo punto dovrà scegliere se dare maggiore supporto al fronte sciita, oppure mantenersi in una qualche posizione di terzietà, curando maggiormente, analogamente a quanto detto sopra per la Cina in Asia Pacifico, gli sviluppi in corso nell’area che la riguarda più direttamente, ossia quella eurasiatica e in Europa Orientale con il conflitto in Ucraina. La posizione russa, così come lo sviluppo generale del conflitto, si complica ulteriormente se guardiamo proprio al legame esistente tra i due grandi quadranti di guerra di oggi, Ucraina e Gaza. È noto, infatti, come Teheran giochi un ruolo di primo piano anche nello scenario ucraino in quanto importante fornitore di armamenti a Mosca, in specie i droni Shahed che sono stati massivamente utilizzati dai russi contro Kiev. Per una Russia alla spasmodica ricerca di sistemi d’arma per far fronte alla prolungata guerra in Ucraina, perdere Teheran sarebbe un brutto colpo, ancor di più sarebbe vedere la propria presenza a Damasco messa in discussione: in Siria si trovano infatti le due uniche basi militari russe (una aerea, l’altra navale) in Medioriente. Tutte queste dinamiche evidentemente, anche agli occhi di un non esperto di affari internazionali, segnano un eventuale destino oscuro per gli sviluppi di guerra, in quanto se la situazione dovesse ulteriormente degradare, non sarebbe impossibile vedere un eventuale maggiore coinvolgimento di Mosca. Da ultimo vale la pena ricordare come la Russia, così come molti altri attori globali, prima di esporsi eventualmente in modo più diretto, rimane in attesa degli esiti delle elezioni statunitensi del 4 novembre prossimo, evento cruciale che, nella scelta del suo prossimo presidente, avrà un impatto inevitabile sui molteplici fronti di crisi aperti, così come sul destino generale della politica internazionale nel futuro prossimo”.

Quali ripercussioni potrebbero avere sul conflitto e sulla politica israeliana i risultati delle elezioni americane?

Anna Cossiga: “Forse bisognerebbe domandarsi prima quale impatto il risultato delle elezioni americane avrà sull’America! Ma, a parte le battute, la politica estera americana difficilmente cambia con il cambiare del comandante in capo. Washington è, e rimane, un alleato imprescindibile di Israele che, tra l’altro, dipende fortemente dagli USA. Biden ha fatto la voce grossa in varie occasioni, quest’anno, poco ascoltato, talvolta “raggirato”, ma ha continuato a rifornire pesantemente di armi Tel Aviv e questo non cambierà. E non cambierà né con Trump, né con Kamala Harris, nonostante le posizioni fortemente critiche di alcuni democratici contro Israele. Trump continua a ripetere che, se ci fosse stato lui alla presidenza, la guerra non ci sarebbe stata, critica Netanyahu, con cui comunque ha “fatto la pace” e afferma con la più assoluta convinzione che, quando sarà di nuovo presidente, la guerra finirà. Ormai conosciamo Trump: gioca a fare l’onnipotente ma, grazie alla struttura istituzionale americana, non lo è. E poi, mancano ancora due mesi alle elezioni e, in Medio Oriente, tutto può succedere, anche che si arrivi ad un cessate il fuoco per logoramento. Che cosa ne sarà di Gaza, e del Libano, poi, si vedrà”.

Germano Dottori: “Il Medio Oriente ha già influito in passato sulle elezioni presidenziali americane. La crisi degli ostaggi, ad esempio, contribuì notevolmente a portare nel 1980 Ronald Reagan alla Casa Bianca. Il protrarsi degli scontri attualmente in corso potrebbe per ragioni simili favorire ora Donald Trump, che accusa di debolezza ed irresolutezza l’amministrazione Biden. Peraltro, ed è paradossale, se gli Stati Uniti partecipassero in modo significativo ad azioni israeliane contro l’Iran, Trump potrebbe trarne egualmente beneficio, rilanciando in modo strumentale la carta del disimpegno e dell’anti-bellicismo che tanto piace a settori sempre più larghi dell’opinione pubblica americana. Morale: qualunque cosa si faccia, il tycoon potrebbe avvantaggiarsene. Infine, se venissero colpiti i terminal petroliferi iraniani, il rialzo immediato dei prezzi del greggio avrebbe un impatto certamente inflazionistico negli Stati Uniti, indebolendo la Harris, che è il vicepresidente in carica. Tra i due candidati il distacco sembra minimo. Potrebbero bastare spostamenti anche molto contenuti di voti a cambiare l’esito dell’elezione, apparentemente in bilico”.

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