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Buone notizie per i paesi più poveri del Global South

La Cina si dice disposta a collaborare con i paesi aderenti al Common Framework for Debt Treatment. Cosa cambia per il Global South? L’analisi di Guido Bolaffi

Per il Global South più povero del Pianeta arriva una buona novella. Da dove? Dallo scarno comunicato stampa di giovedì 13 aprile col quale la People’s Bank of China rendeva noto che il suo Governatore Centrale Yi Gang aveva dichiarato nell’ultimo incontro a Washington dei Ministri delle Finanze del G20 che: “China is willing to work with all parties to implement the Common Framework for debt resolution”.

Una decisione, spiegava a due giorni di distanza il Financial Times nell’articolo Beijing vows to co-operate on default, con la quale il governo di Pechino, dopo anni di dura opposizione, si diceva pronto a collaborare con quelli aderenti al Common Framework for Debt Treatment.

Il meccanismo multilaterale ideato tre anni fa in sede G20 per facilitare, riunendo allo stesso tavolo paesi creditori e debitori, la ristrutturazione del debito di quelli più in difficoltà. Ed evitare che il contagio del possibile default di nazioni come, ad esempio, il Ghana, il Pakistan, l’Etiopia o lo Sri Lanka si propagasse all’intera galassia del Global South. Visto che, per usare le parole di David Malpass, Presidente della World Bank, “Low-income countries are at high risk of debt distress or are already in it and debt crisis are also spreading to middle-income countries”.

Non è semplice spiegare in poche parole e con la dovuta chiarezza, soprattutto per i non addetti ai lavori, il significato della “svolta” cinese sul debito. Per questo ci siamo affidati alle esemplari considerazioni di merito svolte da Kate Marino sulla rubrica economica dell’agenzia americana AXIOS nell’articolo Why Zambia’s debt restructuring is a critical test for China: the COVID crisis was especially painful for poorer countries, which were rocked by a collapse in currency values and commodities prices that made many of their debts difficult to repay [...] To deal with growing defaults the G20 group of nations created something called the Common Framework [...] The idea of the framework was to bring newer, less-experienced creditors like China to the table with the traditional group of creditor nations- known as the Paris Club - to negotiate restructuring plans with defaulters [...] Typically such negotiations involve forgiving enough debt that a country could get back on its feet, with all the various creditors sharing the burden of losses. China has emerged as a top source of capital for low-income economies in recent years, a venture that helped expand its global influence [...] But the Common Framework has been ineffective so far because of China ‘s failure to provide any meaningful debt relief”.

In sostanza quando un paese non è in grado di fronteggiare le scadenze del suo debito con l’estero, per evitare di finire in default chiede soccorso all’IMF. Le cui autorità, valutate le possibili condizioni per la “ristrutturazione” del suo debito (cosa che richiede lunghi mesi di discussioni), intervengono con gli aiuti richiesti. Operazione possibile solo a due condizioni: che il governo del paese “aiutato” si impegni a portare avanti un severo aggiustamento dei conti economici; che i creditori (privati o pubblici) accettino la dilazione oltreché la parziale riduzione dei rimborsi dovuti. Una clausola che le autorità finanziarie di Pechino fino a ieri avevano sempre respinto.

Tanto è vero che, ad esempio, lo Sri Lanka, proprio a causa della prolungata indisponibilità di Pechino ad “abbonare” una parte del 52% del debito dovutogli dall’isola, è stato costretto ad attendere marzo 2023 per ricevere la prima tranche dei 3 miliardi di dollari stanziati a suo favore dall’IMF fin dal settembre del 2022.

Oggi però, dopo le parole del Governatore della People’ Bank of China (se confermate e seguite dai fatti) tutto cambia. E non di poco.

Intanto perché con la collaborazione della Cina al Common Framework for Debt Treatments è sperabile si riesca a garantire la Debt Transparency in Developing Economies auspicata nel 2021 dal magistrale studio della Banca Mondiale. Facendo così chiarezza sugli intrighi politico-burocratici ed economico-sociali che alimentano il “buco nero” del debito che attanaglia le economie delle nazioni più povere della Terra.

Infatti, non bisogna mai dimenticare che: “In a sovereign debt crisis the biggest victims aren’t the international creditors but the regular people whose economy is stuck in a holding pattern while the government haggles over austerity and repayment schedules”. Ma soprattutto perché confermano la giusta intuizione di quanti hanno capito – si veda ad esempio i risultati dell’ultimo, recente vertice di Delhi tra India e Giappone – che le carte della futura geopolitica internazionale si giocano dando risposta alle piaghe troppo a lungo ignorate del Global South.

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