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America Latina, nuovo teatro della sfida USA-Cina

Il rinnovato attivismo degli Stati Uniti nel proprio “giardino di casa” si confronta con una presenza cinese ormai radicata. I Paesi latinoamericani si muovono su un terreno fragile, tra pressioni strategiche incalzanti e vincoli economici difficili da sciogliere.

La seconda amministrazione Trump ha restituito centralità all’America Latina, segnando una svolta rispetto a oltre due decenni durante i quali l’attenzione di Washington è stata rivolta a scenari extra-emisferici, spesso a scapito dell’impegno nel proprio “giardino di casa”. Emblematica, in tal senso, è stata la prima missione all’estero del Segretario di Stato Marco Rubio, che ha toccato Panama, El Salvador, Guatemala, Costa Rica e Repubblica Dominicana: un segnale chiaro della rinnovata centralità attribuita alla regione.

Questo rinnovato attivismo, ispirato al principio di “America First”, si è tuttavia sviluppato all’interno di una cornice fortemente securitaria, caratterizzata da un disimpegno selettivo rispetto ad ambiti tradizionali dell’azione statunitense, e accompagnata da politiche protezionistiche, in particolare l’introduzione di dazi. Tra le principali scelte dell’amministrazione figurano un inasprimento della retorica sulla crisi del fentanyl, il rafforzamento della lotta alla criminalità transnazionale, un approccio più rigido in materia migratoria e tagli significativi all’assistenza umanitaria e alla cooperazione allo sviluppo. L’asse portante di questa strategia è il contenimento della crescente influenza di Pechino nella regione. Poiché la presenza cinese in America Latina è prevalentemente economica, le priorità dell’amministrazione Trump non riflettono tanto il timore di una minaccia militare imminente, quanto la preoccupazione per la capacità d’influenza che Pechino può esercitare grazie al proprio peso economico. In uno scenario di crisi o di tensione geopolitica, i Paesi fortemente dipendenti dal commercio, dagli investimenti o dal credito cinesi potrebbero trovarsi nell’impossibilità di impedire a Pechino di sfruttare tale leva per compromettere gli interessi strategici di Washington.

L’attenzione dell’amministrazione si è concentrata su due direttrici principali: il controllo esercitato dalla Cina lungo le filiere dei minerali critici e la gestione di infrastrutture strategiche a duplice uso, con particolare riferimento a quelle digitali e portuali. Tra le infrastrutture portuali al centro dell’interesse americano figura il Canale di Panama, portato al centro del dibattito pubblico su impulso del Presidente Trump, che ha indotto il governo panamense a ritirarsi dalla Belt and Road Initiative (BRI) e ha esercitato forti pressioni su CK Hutchison — società con sede a Hong Kong che da oltre vent’anni gestisce i terminal di Balboa e Cristóbal, alle due estremità del canale — per cedere tali asset a un consorzio guidato da BlackRock e Terminal Investment Limited (controllato da MSC). La retorica diretta e spesso polarizzante di Trump ha spinto alcuni osservatori a minimizzare la preoccupazione legata alla presenza cinese nei porti panamensi. Tuttavia, il timore che un’infrastruttura tanto sensibile possa, in futuro, essere utilizzata dalla Cina per attività di sorveglianza o per ostacolare una risposta militare statunitense, soprattutto in uno scenario di crisi legato a Taiwan, è da tempo al centro delle valutazioni dello US Southern Command (SOUTHCOM), responsabile delle operazioni militari statunitensi nell’emisfero occidentale.

Pur richiamando orientamenti strategici storicamente presenti nella politica estera statunitense, l’approccio dell’amministrazione Trump ha sollevato perplessità per la sua mancanza di una visione organica e strutturata. Concentrarsi su interventi ad alta visibilità e su questioni politicamente sensibili rischia infatti di frammentare l’azione statunitense nella regione, riducendola a una serie di risposte puntuali, potenzialmente efficaci nel breve periodo, ma prive di una visione d’insieme. In un contesto in cui la presenza economica della Cina è ormai profondamente radicata — soprattutto nei settori delle infrastrutture, dell’energia e della tecnologia — colpire singoli investimenti o progetti simbolici difficilmente produrrà effetti duraturi. Lo strumento principale attraverso cui Pechino esercita la propria influenza in America Latina è la sua proiezione economica, che contribuisce in modo progressivo a riequilibrare gli assetti regionali a suo favore. Per contrastare questa dinamica, non bastano i tradizionali strumenti di cooperazione in materia di difesa o sicurezza: serve una strategia stabile e multidimensionale, capace di intervenire sullo sviluppo economico, il rafforzamento istituzionale e l’allineamento politico della regione. In questa prospettiva, il Congresso ha approvato il Western Hemisphere Partnership Act, che incarica formalmente il Dipartimento di Stato di elaborare, entro la fine di giugno, una strategia regionale di medio termine, fondata su una visione complessiva e coordinata dell’impegno statunitense nell’area. Resta da vedere se tale iniziativa riuscirà a tradursi in un’effettiva cornice strategica, oppure se rimarrà un intervento isolato, privo di continuità e di impatto duraturo.

La svolta cinese apre uno spazio strategico per gli Stati Uniti

La Cina ha colto l’opportunità offerta dall’evoluzione dell’approccio statunitense verso l’America Latina sotto l’amministrazione Trump — caratterizzato da una presenza meno prevedibile e da segnali contrastanti tra disimpegno selettivo e iniziative assertive — per riaffermare la propria presenza nella regione, presentandosi come partner affidabile e alfiere del multilateralismo. In occasione del Forum Cina-CELAC tenutosi a metà maggio, il presidente Xi Jinping ha annunciato nuovi investimenti infrastrutturali e una linea di credito da 9 miliardi di dollari (denominati in yuan), destinata ai Paesi della regione. Questo rinnovato slancio non solo segnala l’ambizione di Pechino di consolidare la propria proiezione geopolitica, ma riflette anche, in modo ancor più significativo, l’accelerazione di un cambiamento strutturale nel suo modello di crescita. Di fronte al rallentamento dei motori economici tradizionali e al rischio di cadere nella cosiddetta “trappola del reddito medio”, il Partito Comunista ha impresso negli ultimi anni una nuova direzione al tradizionale modello export-oriented del Paese, puntando su settori a maggiore valore aggiunto e ad alta intensità tecnologica. L’America Latina — dove la domanda per tali prodotti è in crescita — ha acquisito un peso specifico crescente nei piani di Pechino, anche in ragione delle tensioni commerciali con gli Stati Uniti e di un quadro segnato da dazi e misure protezionistiche, che rendono l’accesso al mercato nordamericano sempre più incerto.

Parallelamente all’ampliarsi della presenza economica cinese in America Latina, cresce tra i governi della regione la consapevolezza degli squilibri strutturali che caratterizzano le relazioni commerciali con Pechino. Le principali criticità riguardano, da un lato, la concorrenza sleale esercitata da imprese cinesi in settori in cui le industrie locali aspirano a competere; dall’altro, la forte dipendenza dalle esportazioni di prodotti agricoli e minerari. Il modello commerciale promosso da Pechino tende infatti a rafforzare questi squilibri: l’84% delle esportazioni latinoamericane verso la Cina è costituito da materie prime, mentre il 63,4% delle esportazioni cinesi nell’area è composto da beni industriali. Nel corso di una recente visita di Stato in Cina, pur tenutasi in un clima cordiale, il presidente brasiliano Lula ha dato voce al crescente malcontento regionale per l’asimmetria nelle relazioni economiche con Pechino, sottolineando la necessità di aumentare le esportazioni regionali a maggiore valore aggiunto. Le tensioni, tuttavia, non si limitano ai rapporti commerciali. Negli ultimi anni il calo degli investimenti legati alla Belt and Road Initiative ha ridimensionato un elemento chiave della narrativa positiva associata alla presenza cinese in America Latina. Questa contrazione, unita al crescente orientamento verso settori ad alta intensità tecnologica e legati all’innovazione, ha innescato nuove riserve in diversi Paesi latinoamericani. In questi contesti, si guarda con cautela al rischio che la presenza cinese accresca la dipendenza in settori considerati sensibili o strategici. Il clima di crescente diffidenza verso la presenza cinese apre uno spazio politico che gli Stati Uniti potrebbero sfruttare per proporsi come partner alternativo, più affidabile e attento alle priorità regionali.

Tra Stati Uniti e Cina: la difficile posizione dell’America Latina

Con l’intensificarsi della rivalità fra Stati Uniti e Cina, i governi latinoamericani si trovano costretti a manovrare tra pressioni crescenti e margini di autonomia sempre più ridotti. L’approccio statunitense tende a inquadrare la competizione con la Cina in termini binari, chiedendo ai Paesi della regione di prendere posizione, soprattutto in settori considerati strategici. Ma in ambiti chiave come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione — incluso il 5G — o nei grandi progetti infrastrutturali, come il megaporto di Chancay in Perù promosso da Pechino, Washington sollecita i governi latinoamericani a rifiutare il coinvolgimento cinese, senza tuttavia offrire alternative concrete. A questo si aggiunge un disinteresse selettivo da parte degli Stati Uniti per ambiti tradizionalmente associati alla proiezione del proprio soft power, come l’assistenza umanitaria e gli aiuti allo sviluppo, salvo poi criticare duramente ogni segnale di apertura dei governi latinoamericani verso Pechino. Parallelamente, la presenza economica della Cina in America Latina ha assunto una tale profondità che anche i governi intenzionati a prenderne le distanze si trovano spesso costretti a fare marcia indietro. Il caso dell’Argentina, sotto la presidenza di Javier Milei, è particolarmente rivelatore. Nonostante una retorica fortemente ostile a Pechino e una chiara volontà di allienarsi con Washington — ricompensata da un prestito da 20 miliardi di dollari approvato a metà aprile dal Fondo Monetario Internazionale — il governo argentino ha dovuto rivedere le proprie posizioni su più fronti. Pressato dalla necessità di rafforzare le riserve valutarie, il governo ha mantenuto un controverso accordo di scambio di valute con la Cina e, pur manifestando segnali simbolici di vicinanza a Washington — come l’uscita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità — ha aperto la porta a nuovi investimenti cinesi nel settore strategico del litio. In questo contesto, la traiettoria argentina è il sintomo di una realtà più ampia: in un’economia regionale sempre più intrecciata con quella cinese, il margine di autonomia degli Stati latinoamericani si restringe, anche per i governi più apertamente filo-occidentali.

In conclusione, con l’intensificarsi della competizione tra Stati Uniti e Cina, la posta in gioco cresce e gli spazi di manovra per i governi regionali si fanno più ristretti. Washington resta l’attore principale in materia di difesa e sicurezza, ma la sua affidabilità è oggetto di dubbi crescenti nella regione. Sul piano economico, la presenza della Cina — soprattutto in Sud America — ha raggiunto una tale profondità da rendere complicato per molti Paesi opporsi alle sue priorità. E tuttavia, il rinnovato impegno cinese è visto con crescente diffidenza dai paesi latinoamericani. Per gli Stati Uniti, si apre una finestra di opportunità per riconquistare centralità, a condizione che riescano a proporre un’agenda coerente e multidimensionale. Stabilità e continuità sono tradizionalmente percepite come punti di forza dell’approccio cinese; spetta ora a Washington dimostrare di saper offrire un’alternativa all’altezza. Il Western Hemisphere Partnership Act potrebbe rappresentare un passo nella giusta direzione, ma molto dipenderà dalla sua concreta attuazione.

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