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La nuova proiezione di influenza statunitense in Asia Centrale

Un'analisi sulle opportunità e le sfide, nell'analisi di Giorgio Cella

Tra le molte osservazioni e analisi che si possono elaborare alla luce della pubblicazione del molto discusso documento di National Security Strategy dell’amministrazione Trump, si trova un cambio di orientamento verso l’Asia, dove la Cina viene poco citata, descritta ora solo come economic competitor, e non più etichettata come potenza revisionista che mira a indebolire lo status di potenza di Washington. È tuttavia ben noto come molte delle direttive contenute nel documento NSS non vengano poi applicate alla lettera, o non vengano del tutto applicate, e come varie delle policies globali ivi delineate, siano a volte mere cortine fumogene per disorientare i rivali sistemici degli Stati Uniti. Ciò potrebbe essere il caso per quanto concerne l’accennata diminuzione di importanza dell’emisfero geopolitico asiatico per Washington, se si osservano gli ultimi eventi diplomatici che hanno portato gli Stati Uniti in una posizione più assertiva in Asia Centrale. Una presenza americana più forte nella regione eurasiatica che, implicitamente, non impensierisce solo la proiezione di potenza cinese, ma anche quella russa, entrambi pilastri dell’architettura di sicurezza, geopolitica e geoeconomica eurasiatica della Shangai Cooperation Organization.

La cornice diplomatica e il cambio di passo eurasiatico di Washington

Agli inizi di novembre infatti, si è tenuto a Washington il summit noto come C5+1 (ossia Stati Uniti più i cinque Paesi dell’Asia Centrale, a livello di ministri degli esteri, un formato diplomatico iniziato nel 2015 sotto l’egida del Segretario di Stato e navigato diplomatico John Kerry), che ha questa volta costituito un cambio di passo in termini di diplomatic commitment da parte degli Stati Uniti al fine di stabilire una propria influenza politica in Asia centrale, una regione che è per varie dimensioni storicamente crocevia dei grandi giochi di potenza, ma che è sovente rimasta ai margini della politica estera statunitense. Cambio di passo anche simbolico e diplomatico: gli invitati erano tutti capi di Stato e il luogo dell’incontro per la prima volta è stata la Casa Bianca. L'incontro con i leader di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan ha fatto emergere la maggiore consapevolezza di Washington riguardo al fatto che l'Asia centrale è assurta ad aumentata centralità per i meccanismi che plasmano la global power competition, specie da quando con l’avanzamento accelerato sul piano tecnologico, digitale e di Intelligenza Artificiale, le risorse di minerali essenziali sono divenute così preziose e strategiche.

L’Asia Centrale e la geografia politica: due realtà inseparabili

Il vertice ha portato ad accordi commerciali per oltre 130 miliardi di dollari, tra cui troviamo partnership minerarie e accordi per il settore dell'aviazione. Si è inoltre raggiunta una formale dichiarazione congiunta su una futura, più ampia cooperazione economica, da cui traspare un piano olistico per legami più stretti in vari ambiti, dal commerciale all’energetico, da quello educativo a quello digitale. Il messaggio di politica internazionale è evidente ed è il seguente: gli Stati Uniti intendono ora competere con Russia e Cina in termini sia economici che di politica di potenza in una regione in cui entrambe hanno tradizionalmente avuto un peso particolare.

Per i governi dell'Asia centrale, questo nuovo eurasian geopolitical commitment degli Stati Uniti rappresenta a un tempo un'opportunità e una sfida irta di complicazioni. L'opportunità si trova evidentemente nella diversificazione ed espansione delle loro economie, nell'attrazione di nuovi importanti investimenti e nella relativa diminuzione della dipendenza dal duopolio Mosca-Pechino. La sfida e i rischi connessi risiedono invece nella imprescindibile natura geopolitica di questi Stati: la loro geografia e le relative infrastrutture legano l’area dell’Asia Centrale al duumvirato russo-cinese. Il nuovo approccio statunitense trumpiano, che si avvicina a quello realista delle due potenze sopra menzionate, incentrato su investimenti e commercio - e ora scevro da tentativi di imposizioni di riforme e proiezione di talune tendenze liberali e moderniste occidentali, generalmente invise alle popolazioni islamiche e tradizionaliste dell’Asia Centrale - potrebbe conferire a Washington una presenza anche duratura e di nuovo attore di riferimento nella regione a fianco di Mosca e Pechino.

Tornando però alla realtà geopolitica di fondo della regione, questa nuova fase di cooperazione dovrà affrontare profonde sfide strutturali. La geografia senza sbocchi sul mare dell'Asia centrale, le sue governance talvolta fragili e le sue infrastrutture in parte obsolete, rendono ardua una trasformazione rapida su larga scala. Le economie dei vari “Stan” rimangono infatti fortemente dipendenti dagli oleodotti russi come dai finanziamenti cinesi. Alla luce di tali fatti strutturali, rimane dunque da vedere se questa nuova spinta americana alla cooperazione in Asia Centrale sia solo entusiasmo del neofita o se, in futuro, si dimostrerà in grado di crescere e stabilizzarsi nella regione. Ciò dipenderà anche dalla riuscita o meno del tentativo di ampliare gli Accordi di Abramo all’Eurasia che, trascendendo il Medioriente, come già visto nella precedente analisi per quanto riguarda il Kazakistan, hanno già avuto un primo successo nell’area proprio tramite l’inclusione in essi di Astana. Il successo o meno di tale grand strategy, dipenderà anche dall’andamento del conflitto in Ucraina e da come Mosca riuscirà a uscire, in termini di status e di potenza, dalla lunga e logorante guerra con Kiev.

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