Approfondimenti

Buone notizie per l’Occidente dall’Indo-Pacifico

Per l’Occidente arrivano tre segnali incoraggianti dall’Indo-Pacifico. Il punto di Guido Bolaffi

Nelle ultime settimane l’Occidente ha intravisto all'orizzonte dell’Indo-Pacifico tre incoraggianti raggi di sole.

Il primo: il vertice dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) dello scorso 23 giugno, che, diversamente dalle voci della vigilia, si sono limitati a discutere – come di prammatica avevano fatto nei precedenti incontri annuali – di programmi relativi al miglioramento del loro interscambio economico commerciale, non consentendo al Presidente russo Vladimir Putin – come invece temuto da molte cancellerie occidentali – nonostante avesse al fianco il potente alleato cinese Xi Jinping, di inserire nel comunicato finale alcun riferimento critico agli USA ed ai suoi alleati sulle sanzioni imposte a Mosca per l’invasione dell’Ucraina.

Un risultato sul quale ha pesato non poco l’abilità diplomatica dell’India. Infatti, scriveva Colm Quinn commentando su Foreign Policy l’esito del summit: “Indian officials aren’t naìve about their position, and are reportedly working to block any attempts to insert anti-US messaging into BRICS joint statement as well as slow any attempts to expand the grouping”.

Il secondo: la coraggiosa svolta ambientalista dell’Australia del nuovo Primo Ministro Anthony Albanese, che, dopo aver sorprendentemente scalzato nelle urne il Premier conservatore Tom Morrison, aveva debuttato lo scorso maggio al vertice Quad di Tokyo prendendo in contropiede i colleghi di USA, India e Giappone con un accorato ma deciso discorso sulla necessità di affrontare seriamente le cause dei gravi danni legati al cambiamento climatico.

Una presa di posizione su cui aveva richiamato l’attenzione Shichiro Taguchisu nell’articolo di Nikkei Australia’s Albanese grabs torch on climate change in Quad debut: “Anthony Albanese made his international debut as Australia’s prime minister, striking different tone from Tom Morrison, putting climate change at the forefront of his foreign policy while promising unflinching resolve on Indo-Pacific security”.

Tema ripreso con forza dallo stesso Albanese siglando il 10 giugno a Sidney un’alleanza di ferro sul clima con il Primo Ministro della Nuova Zelanda Jacinda Arden, la quale, conclusi i colloqui ufficiali con il Premier australiano, aveva rilasciato alla Reuters la seguente dichiarazione: “We’re in lockstep on the Pacific [...] The Prime Minister and I, we shared concerns about the Pacific as China pushes to expand its influence in the region [...] Climate change is a global issue, one that is writ large in our region and we are very eager to work alongside our Pacific partners on this significant threat [...] Governments wanted to see an elevation of Pacific Island voices in the regions, despite a lot of dialogue, many countries had not had a chance to speak for themselves”.

Una vera e propria soluzione di continuità con la politica seguita fino ad oggi nella regione indo-pacifica dall’Occidente, perché, spiegava tempo addietro Darshana M. Baruah nel paper What Islands Nations Have to say on Indo-Pacific Geopolitics, “There has been little effort to understand that Island nations prioritize climate change; illegal, unregulated and unreported (IUU) fishing; piracy; plastic pollution; and oil spill as the biggest security threats in the Indian and Pacific Oceans [...] India and Australia are viewed as dominating powers by their neighboring islands who depend on Delhi and Canberra for economic and military security. Compared to these actors they view Beijing as a partner who offers opportunities for them who are scrambling to make their voice heard”.

Il terzo: mentre il grande progetto economico cinese, meglio noto come Belt and Road Initiative (BRI), comincia ad accusare alcuni primi colpi a vuoto, il G7, appena concluso tra le montagne della Baviera, ha deciso lo stanziamento di 600 miliardi di dollari per la Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII) nelle nazioni in via di sviluppo. Una novità che Emily Peck e Matt Phillips hanno così sintetizzato sul quotidiano on line americano Axios del 30 giugno scorso: “The PGII appears to be a bid to counter China’s influence across a wide swath of the world [...] Over last two decades China’s morphed into the single largest lender to lower and middle-income countries, igniting Western concerns that it’s using its coffers as a tool for influence and control over countries in need of development funds [...] China’s ambitious BRI is now in a state of crisis as sovereign debt distress spreads [...] 60% of BRI loans are to countries now in financial distress compared to 5% in 2010 [...] 35% of the BRI infrastructure project portfolio faces a major implementation problem [...] during its peak years BRI was lending about $85 billion per year compared to $14 billion last year”.

In sostanza, ha commentato il direttore esecutivo di AidData Brad Parks: “I think (the G7) are trying to change narrative, create more choice in the infrastructure financing market, and pick off some of the countries that have a bad taste in their mouth from their experience with BRI”.

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