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Burkina Faso. Il mito di Thomas Sankara

Thomas Sankara, il “padre” del Burkina Faso di oggi. Il ritratto di Ginevra Leganza

La patina della nostalgia si deposita sul tempo che passa e su quello che incombe. Allora l’uomo diventa mito, leggenda, principio ispiratore. Thomas Sankara è tornato oggi, in Burkina Faso, nelle vesti di custode e di mito. Di nume tutelare del potere politico e di padre della patria. I governanti gli tributano spazi di vita pubblica (piazze, strade, mausolei); i governati – in special modo i giovani che non l’hanno direttamente conosciuto – ne ravvivano il culto. E così l’uomo e presidente burkinabè è diventato il simbolo della decolonizzazione politico-economica come di quella culturale del paese.

Solo sabato scorso il governo di transizione ha inaugurato a Ouagadougou il Mausoleo di Thomas Sankara e dei suoi dodici compagni assassinati, nel 1987, dall’allora vicepresidente (e amico) Blaise Compaoré, che ne prese il posto insediandosi come dittatore. Il capitano Ibrahim Traoré a Sankara ispira la sua azione politica, e come molti lo definisce il “Che Guevara africano”.

“Abbiamo validi cittadini per la toponomastica”, dichiarava Traoré già due anni fa, allorché il boulevard Charles De Gaulle a Ouagadougou cambiava nome in boulevard Thomas Sankara, sempre nel solco del “sankarismo” che portava poi i vertici del governo a proclamarlo eroe nazionale e celebrarlo, dal 2023 in poi, ogni 15 ottobre.

Ma ecco che per comprendere l’uomo divenuto archetipo (oltreché mito) dell’azione politica in Burkina – e in buona parte dell’Africa subsahariana – bisogna ripartire da un punto preciso della storia del paese. Un punto che ha inizio il 4 agosto 1983. E che funge da parallelismo simbolico con il tempo presente. Se oggi la decolonizzazione si misura infatti con i nomi delle strade delle piazze e dei musei, negli anni Ottanta fu proprio Sankara – salito al potere – a cambiare il nome del paese senza sbocchi sul mare. Da Alto Volta, la sua terra prese il nome di Burkina Faso. La regione africana – e colonia francese – che si qualificava per il corso superiore del fiume Volta, diventava con lui il “Paese degli uomini integri”. E poiché, per dirla con Pavel Florenskij, il nome non è mai solo un suono ma è anche una forza, poiché il nome “rivela la presenza” e l’identità, tale è rimasto a dispetto di colpi e “contraccolpi” di stato nonché attacchi terroristici dagli anni Ottanta a oggi. A suggello del legame del capitano Sankara con il suo popolo.


Un cristiano leninista

Thomas Isidore Noël Sankara, veniva al mondo il 21 dicembre 1943, a Yako. Primo dettaglio biografico di colui che diventerà presidente, e “ribattezzerà” la sua terra, risiede esattamente nel suo battesimo. E cioè nel suo essere cristiano. Figlio di madre di etnia mossi (la più diffusa nel paese) e di padre peul, veterano della Seconda guerra mondiale, crebbe infatti a Gaoua, a nord. Tra i contadini poveri e i valori famigliari ispirati al solidarismo religioso.

L’influsso spirituale fu tale da lambire l’idea, poi accantonata, di studiare in seminario. La rotta che – di necessità virtù – segnerà il destino dell’uomo. Sankara, dopo aver fallito nel tentativo di studiare medicina, si iscrive all’Académie Militaire di Antsirabe, in Madagascar, dove diventa soldato e germoglia nello spirito rivoluzionario. Il Madagascar degli anni Settanta fu un laboratorio politico di rivolta: studenti e lavoratori disarcionavano il presidente Philibert Tsiranana, emanazione del colone francese. Ed è quindi in tale contesto – leggendo Marx, Lenin e ammirando la parabola di Patrice Émery Lumumba in Congo – che Sankara innesta la sensibilità cristiana agli ideali del socialismo africano.

Il suo fu dunque, prima di divenire presidente in seguito al colpo di stato appoggiato dalla Libia contro Jean-Baptiste Ouédraogo, uno dei tanti tornanti rivoluzionari nel paese. Con l’eccezione di essere stato, tra gli altri, il più memorabile. E non solo perché la rivoluzione dei nomi che spira oggi a Ouagadougou cominciò nel 1984. Ma anche perché il Burkina Faso cambiò, oltre al nome, i suoi simboli. Sankara introdusse un nuovo vessillo (con il rosso del sangue versato, il verde dei campi, la stella dell’integrità) e un nuovo inno nazionale. “Ditanyè” in Mossi, tradotto in francese “Une seul nuit”, era la ballata contro il colonizzatore, l’inno nazionale scritto dallo stesso presidente – compositore di musica afro-jazz da ragazzo – le cui espressioni chiave erano: “dignità recuperata”, “condivisione con l’umanità”, “felicità di ogni uomo”.

Da questo punto di vista, si avrebbero non pochi elementi per sovrapporre alla sagoma di Sankara una certa idea di “autorità carismatica”. Di leader la cui luce si fonda “sulla devozione all’eccezionale santità – come scriveva Max Weber in “Economia e società” – sull’eroismo, sul carattere esemplare di una singola persona, e sui modelli normativi o ordini rivelati o impartiti da tale soggetto”.

La sua Rivoluzione Democratica e Popolare, iniziata con l’arresto quand’era ancora primo ministro del Consiglio della Salvezza del Popolo – era il 17 maggio 1983 – si concluse, dopo quattro anni, con l’assassinio commesso da un uomo, il suo vice Blaise Compaoré (poi divenuto dittatore sotto l’egida della Francia). Nel 2022 Compaoré è stato condannato in contumacia all’ergastolo con le accuse di attacco alla sicurezza dello stato, occultamento di cadavere, complicità in omicidio.

Nel mentre – tornando al carisma – il sankarismo aveva però preso una sua forma. Nel poco tempo del cristiano leninista al potere, parecchi slogan erano stati coniati. “Osare inventare l’avvenire” era il grido di battaglia contro il “nord” del mondo; e poi: “Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è realizzabile dall’uomo” e “La politica ha senso solo se ha l’obiettivo di rendere felice la popolazione”. Un movimento dello spirito in nome di tutti i “neri dei ghetti considerati poco più che animali”.

Il sogno di Sankara, al di là dello slancio terzomondista, era però sempre quello di uno sviluppo interno, endogeno, affrancato dall’aiuto che non coincidesse con l’eliminazione di ogni aiuto. In ottica autarchica è quindi da leggere il tentativo di nazionalizzare le risorse, imponendo ai militari di allevare suini, e la scelta simbolica di indossare sempre l’abito tradizionale burkinabè.

Ultimo tornante della parabola sankarista fu il discorso del 1986 ad Addis Abeba, allorché propose di non pagare il debito estero. “Sono gli altri – proclamò – ad avere nei nostri confronti un debito che non potranno mai pagare: il debito del sangue che abbiamo versato”. Appello che l’opinione pubblica, ora come allora, giudicò la miccia del colpo di stato che portò di lì a poco al suo assassinio.


Il sankarismo oggi

Secondo il ministro della Comunicazione e della Cultura Pingdwendé Gilbert Ouédraogo – scrive Afrik.com – l’erezione del mausoleo, oggi, ha lo scopo di celebrare la memoria del capitano Sankara, dei suoi dodici compagni assassinati il 15 ottobre 1987, e di custodirne l’eredità politica e rivoluzionaria che abbraccia lo spirito panafricanista e di autosufficienza economica.

Non banale, in tal senso, è il fatto che il mausoleo – sulla spinta del ministro del governo militare di Traoré – accoglierà i ricercatori. Che abbia perciò degli spazi destinati alle giovani generazioni, fisiologicamente più attratte dal mito di quanto non lo siano i coevi della rivoluzione dell’83, talvolta scettici rispetto all’agiografia di Sankara (alcuni di loro, specialmente i commercianti, criticano la “rivoluzione” toponomastica in ragione delle spese legate al cambio d’indirizzo).

Il suo spettro, comunque, si agita. E per coglierlo basterebbe saggiare le reazioni del ministro degli Esteri alle parole del generale statunitense Michael Langley, comandante dell’Us Africom, che in Senato lo scorso 3 aprile dichiarava dannose e infruttuose le relazioni del Burkina con la Russia. Giudizio letto come ingerenza. Come spia di un passato che non passa. E considerato dal ministro degli Esteri – riporta LeFaso.net – “deplorevole, infondato e privo di ogni prova concreta”.

Così, mentre il Burkina si allontana oggi dall’orbita franco-americana, il sankarismo anima l’azione politica. Il cui mantra, più volte, è stato riassunto da Traoré in due parole: “Sovranità totale”.

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