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Continuano le proteste in Iran: cosa significa e cosa aspettarsi

In Iran non si arrestano le manifestazioni di piazza scoppiate alcuni mesi fa. Origine e possibile evoluzione delle proteste nell’analisi di Giorgia Perletta

Sono trascorse otto settimane dall’inizio delle proteste popolari che hanno scosso gli equilibri interni della Repubblica Islamica dell’Iran. Oltre novanta città, tra cui la capitale Teheran, continuano a ospitare le manifestazioni guidate in gran parte da giovani donne tra i 15 e i 25 anni d’età. Seppur queste non rappresentino la maggioranza della popolazione, che invece ha assunto un atteggiamento più cauto evitando di prendere parte alle proteste, le ragazze iraniane si trovano in prima linea e sono state capaci di canalizzare un malcontento non troppo latente e diffuso a più livelli sociali, etnici e generazionali della società iraniana. Dietro lo slogan “donna, vita e libertà”, si concentrano infatti le richieste di maggiori libertà individuali, il riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e la frustrazione verso quelle politiche arbitrarie ed esclusive consolidatesi nei 43 anni di vita della Repubblica Islamica. Nonostante la repressione violenta da parte delle forze di polizia, sostenuta dai principali vertici del nezam (sistema politico), e un bilancio estremamente gravoso tra vittime e detenzioni (si stimano infatti oltre 250 vittime e più di 12.000 arresti), i ragazzi e le ragazze iraniane continuano a scendere in piazza, a organizzare sit-in nelle università e nelle scuole superiori, e hanno raccolto in queste settimane modeste adesioni da parte di alcuni gruppi di lavoratori, come medici, insegnanti, ed esponenti del settore industriale. Non si può ancora parlare, però, di un movimento transnazionale, né di un movimento strutturato di opposizione politica poiché queste proteste nascono e sono alimentate da un malcontento e da una frustrazione che si esprimono ancora in modo impulsivo e disorganizzato.

La storia contemporanea dell’Iran mostra di frequente il ricorso alla protesta come momento di critica al sistema politico e come espressione del dissenso sociale. Se la ribellione popolare non è un fenomeno nuovo, così come non lo è la sua repressione violenta, ora messa in atto dalla monarchia Pahlavi, ora dai vertici della Repubblica Islamica, ciò che si sta verificando in queste settimane in Iran indica nuove dinamiche interne, nuove prassi di resistenza, e nuovi attori sociali intenzionati a contestare – mettendo a rischio la propria incolumità – le norme illiberali e le consuetudini discriminatorie vigenti. Per comprendere quindi la composizione e la longevità di queste proteste, alla luce della loro severa repressione, e per contestualizzare le motivazioni e le implicazioni di questa nuova ondata di contestazione dal basso, è necessario riflettere su alcuni aspetti relativi allo “stato di salute” della Repubblica Islamica.

A scatenare le recenti proteste è stata la morte di Mahsa Amini, donna curda di 22 anni arrestata e detenuta dalla polizia morale di Teheran fino al suo decesso, avvenuto in circostanze sospette a metà settembre. Dalla sua città natale di Saqqez, nel Kurdistan Iraniano, si sono propagate in tutto il paese una serie di manifestazioni in solidarietà alla giovane. Ragazze giovanissime si sono riversate in strada per contestare non solo l’abuso di violenza della polizia, ma soprattutto il decennale controllo di stato sul corpo femminile e sulle libertà individuali. Mahsa Amini, infatti, era stata arrestata con l’accusa di indossare il velo islamico in modo non conforme con le normative in atto. Fin da subito, le proteste hanno posto al centro la condizione femminile in Iran, le disparità di genere e la violazione dei diritti delle donne. La richiesta di maggiori libertà individuali, tuttavia, ha assunto ben presto i caratteri di una contestazione politica. Sono criticate le norme discriminatorie imposte dalla Repubblica Islamica, l’inefficienza e la corruzione politica, così come i complessi meccanismi di potere esistenti. I vertici del sistema hanno subito rifiutato l’ipotesi di individuare un compromesso con i manifestanti, e hanno invece reagito con il pugno duro attraverso la mobilitazione armata e violenta delle forze di polizia. La natura spontanea e non coordinata delle poteste, però, ha impedito una loro repressione sistematica e questo aspetto aiuta a comprendere come mai nonostante le intimidazioni, le rappresaglie e l’intervento armato dei poliziotti, queste manifestazioni non siano state ancora silenziate.

Alla luce di questi due mesi di agitazione popolare, il sistema politico iraniano appare – in parte – più fragile poiché il cosiddetto “patto sociale” tra stato e società sembra quanto più eroso. Le nuove generazioni, nate dopo la rivoluzione del 1979, mostrano segni di insofferenza verso quei modelli culturali e politici veicolati dall’alto, e sui quali non sono ammessi compromessi poiché sostengono le basi ideologiche della Repubblica Islamica. Il crescente divario tra élite e società, tuttavia, non sembra sufficiente per avviare un profondo processo di trasformazione istituzionale. È sicuramente prematuro, se non del tutto azzardato, affermare che siamo davanti a un movimento rivoluzionario, così come sembra imprudente asserire che queste proteste possano innescare radicali cambiamenti politici all’interno della Repubblica Islamica. Mancano infatti alcuni elementi essenziali affinché questo possa verificarsi, come l’adesione massiccia e trasversale dei commercianti (i cosiddetti bazarì) e dei lavoratori, sempre più precari e inabili nel creare una mobilitazione comune. Mancano poi le defezioni all’interno delle forze armate, così come manca un gruppo politico che possa canalizzare le varie richieste e farsi promotore di una transizione politica. Ciononostante, questa ondata di proteste non deve essere sottovalutata né banalizzata. Cautamente, si può immaginare che l’esito di questo periodo tumultuoso sarà visibile nel medio-lungo periodo, nella misura in cui sarà capace di indirizzare una nuova classe politica, che sia più il riflesso delle nuove generazioni, e meno dell’eredità flebile di una rivoluzione ormai superata e – per molti giovani – mai conosciuta.

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