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Dall’Ucraina a Gaza, il ruolo della Turchia nel panorama mediorientale

Quale ruolo può giocare la Turchia, tra mediazione ed equilibrismi, nei due conflitti in corso. Il punto di vista di Claudia De Martino

La Türkiye di Erdoğan è un attore politico essenziale in almeno cinque dei sei conflitti aperti nel Mediterraneo e Mar Nero e in quello in corso nel Caucaso: è infatti direttamente coinvolta in Libia, a Cipro, in Siria e nel Nagorno-Karabakh, ma gioca anche un ruolo di mediatore nella guerra russo-ucraina e avrebbe aspirato a fare altrettanto nel conflitto tra Hamas e Israele a Gaza se le sue speranze non fossero state frustrate da entrambi i contendenti. In tutti questi scenari, Ankara prova a giocare simultaneamente il ruolo dell’attore responsabile che intrattiene rapporti con tutte le parti oltre gli schieramenti, pur senza rimettere in discussione la sua solida appartenenza alla NATO.

Al suo quinto mandato, la strategia diplomatica del Presidente turco sembra tornare, dopo anni di tentativi di egemonizzare la “piazza araba”, dopo l’ondata delle “Primavere” (2011), in rivolta contro i regimi della regione, alla più moderata logica iniziale di “zero problemi con i vicini”, dottrina inizialmente coniata dall’ex Ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu's nel suo celebre libro “Stratejik Derinlik” (“La profondità strategica”, 2001) che preconizzava un “ritorno della Turchia al Medio Oriente” come parte di un “nuovo ottomanesimo”. La stessa strategia di tentata egemonia sulle province dell’ex Impero ottomano ha aperto la strada all’accoglienza di Hamas in Turchia (2011) e all’apertura dei suoi uffici politici ad Istanbul. Con Hamas, l’AKP ha sia legami ideologici che affondano nella comune appartenenza alla Fratellanza Musulmana, che interessi strategici, parte della più ampia strategia diplomatica della “porta aperta verso tutti”, inclusi i gruppi non allineati della regione rappresentanti dell’”Asse della resistenza” anti-americano. Tale strategia prende oggi ancora più trazione puntando a riguadagnare all’AKP le due grandi città -Ankara e Istanbul- alle prossime elezioni municipali, che si terranno nel marzo 2025, giocando la “carta palestinese” per contrastare l’avanzata delle altre forze islamiste e nazionaliste, anch’esse compattamente schierate a favore di Hamas all’indomani dell’attentato del 7 ottobre. Il tema della libertà di preghiera e culto nella moschea al-Aqsa, simbolo dell’unità del mondo musulmano, è infatti molto sentito nel Paese, come si è evinto anche dalla “Grande manifestazione per la Palestina” che si è tenuta il 28 ottobre scorso vicino all’aeroporto Atatürk, partecipata da centinaia di migliaia di Turchi. In quell’occasione, Erdoğan ha enfatizzato la vulnerabilità militare di Israele e la sua assoluta dipendenza da parte dell’Occidente, preconizzando in futuro un ridimensionamento del sostegno ad Israele da parte del blocco NATO.

La Turchia prova così oggi a proporsi come “il protettore dei Palestinesi” nel mondo arabo in opposizione diretta agli Stati Uniti, tradizionale protettore di Israele. La strategia di “zero problemi con i vicini” è stata dunque riformulata in una nuova formula maggiormente aggressiva, denominata la dottrina della “Patria Blu” (Mavi Vatan), che, prendendo il nome da un’esercitazione militare del 2019, ha finito per rappresentare il nuovo quadro strategico dell’espansione militare marittima di Ankara dal Mediterraneo al Mar Rosso passando per la Libia, sancendo un nuovo attivismo nelle acque territoriali turche intorno a Cipro (divisa dal 1974 dopo l’occupazione della parte settentrionale dell’isola e dove recentemente sono stati scoperti nuovi giacimenti offshore di idrocarburi). Isolata dai processi di normalizzazione in corso prima del 7 ottobre tra Israele e i Paesi arabi sunniti, noti come “accordi di Abramo”, e dai loro sviluppi, come il summit del Negev (che vide nel marzo 2022 riuniti Egitto, Marocco, UAE, Bahrein e Israele), la Turchia ha da prima tentato una riconciliazione con Tel Aviv per timore di rimanere isolata nel nuovo contesto regionale (agosto 2022) ma ha poi, intorno al 25 ottobre, a circa due settimane dall’attentato, optato per una rottura netta con Israele, arrivando a minacciarlol in caso persegua attività e capi di Hamas sul suo territorio nazionale e a definirlo “uno stato terrorista” perseguibile dalla Corte penale internazionale. Hamas mantiene infatti i suoi uffici in Turchia, che ospita Salah al-Arouri, uno dei comandanti fondatori della sua ala militare - le brigate "Izz ad-Din al-Qassam" -, considerato "il comandante militare della Cisgiordania" e un importante reclutatore di fondi all’estero, che detiene un passaporto turco e sulla cui testa pesa una taglia di 5 milioni di dollari. Celebrando Hamas come un “movimento di mujahedin” e una forza di resistenza, Erdoğan è andato in televisione dopo la grande manifestazione di Istanbul del 28 ottobre affermando che la Turchia sarà sempre “dal lato degli oppressi”: una tolleranza nei confronti del movimento palestinese mal digerita dallo Stato ebraico, che, a differenza di molti Paesi UE o NATO, ha sempre annoverato il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) tra le organizzazioni terroristiche.

Tuttavia, la Turchia con Israele sembra anche giocare una partita più ampia, inviando attraverso Tel Aviv segnali agli USA. Nonostante il corso più distensivo inaugurato nelle relazioni USA-Turchia dal nuovo Ministro degli esteri Hakan Fidan, considerato un moderato e un rappresentante dell’ala riformista dell’AKP, le posizioni dei due Paesi rimangono infatti distanti su molti dossiers sensibili. In primis, Ankara contesta a Washington il suo stabile supporto al gruppo YPG siriano, ormai incardinato nelle Forze di difesa siriane (SDF)con il suo comandante curdo Mazloum Kobani Abdi, in conflitto anche con il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) iracheno, interessato, invece, a mantenere buone relazioni con la Turchia, anche permettendole di compiere raid militari contro il PKK sul suo territorio, dove Ankara incontra solo l’ostilità delle milizie sciite irachene pro-iraniane (Hashd al-Shaabi, Kataib Hezbollah e Asaib Ahl al-Haq) e deboli rimostranze del Governo al-Sudani. Secondo dossier difficile è la mancata estradizione di Fethullah Gülen, il predicatore islamico ex alleato di Erdoğan, oggetto di una nuova richiesta di estradizione dopo il fallito golpe militare del 15 luglio 2016, attribuito ai “Gülenisti”; infine sulle relazioni USA-Turchia pesa l’embargo imposto ad Ankara sulle armi strategiche a seguito dell’acquisto dei missili S-400 dalla Russia e il “caso Halkbank,”.

Tuttavia, la Turchia non vuole affatto alzare il livello generale dello scontro: prova ne è la cooperazione con gli USA e i Paesi Nato su altri dossiers importanti, come l’adesione della Svezia alla NATO, accettata e siglata appena alcuni giorni dopo le controverse dichiarazioni su Hamas e attualmente in attesa di ratifica da parte del Parlamento turco. Così come è ovvio che la Turchia abbia dato prova di essere un attore altrettanto ragionevole sullo scenario russo, dove la politica non binaria di Ankara è risultata una scelta vincente, che le ha permesso di inviare armi e hardware a Kiev (tra cui i famosi droni Bayraktar che affondarono la nave ammiraglia Moskva nel novembre 2022) in solidarietà con la coalizione occidentale, pur continuando a commerciare con la Federazione russa (consentendole così l’accesso per suo tramite ai mercati globali), riuscendo così a luglio 2022 ad ospitare gli unici negoziati (noti come “BSGI, Black Sea Grain Initiative”) parzialmente riusciti tra le parti sull’apertura di un “corridoio del grano” nel Mar Nero. Ankara è stata protagonista di un certo interventismo nella guerra russo-ucraina in piena autonomia dalle sanzioni imposte dal dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti alla Russia, pur senza mettere in discussione la sua adesione alla NATO: il suo obiettivo era duplice, da un lato voleva avvantaggiarsi del temporaneo isolamento internazionale della Russia per convogliare verso la Turchia ingente parte dei suoi investimenti. Esempi della convenienza economica del dialogo russo-turco per Ankara sono stati l’accordo di Sochi (agosto 2022) con cui l’interscambio tra i due Paesi è cresciuto fino a raggiungere 8 miliardi (dai 5.7 miliardi dell’anno precedente) e il prestito da 5 miliardi assicuratasi per la costruzione di un impianto nucleare nel sud del Paese (Akkuyu nella provincia di Mersin) da parte della società russa ROSATOM, dall’altro confermare la sua strategia diplomatica aperta al dialogo con tutti i Paesi della regione.

La stessa strategia di equidistanza che Erdoğan avrebbe voluto adottare nel conflitto tra Hamas e Israele, se i suoi tentativi di richiedere un cessate-il-fuoco presso le Nazioni Unite o di proporre una soluzione di lungo termine per Gaza basata su una coalizione di “Stati garanti” da dispiegare nella Striscia del dopoguerra non fossero andate frustrate da entrambe le parti, con Israele ostinatamente opposto alla fine delle operazioni militari e Hamas altrettanto testardamente intenzionato a negare ad Ankara un ruolo di intermediazione nella questione degli ostaggi. In definitiva, nella nuova Guerra Hamas-Israele Ankara si è trovata ben più isolata che nel conflitto russo-ucraino, condizione che ha spinto Erdoğan a prediligere la scelta dell’abbandono dell’equidistanza per un posizionamento forte nel conflitto per ragioni di politica interna. Confrontata alla competizione dei partiti islamisti sbocciati alla sua destra, come il partito radicale Hüda-Par (Causa Libera) dell’avvocato Şehzade Demir, che ha tenuto il 12 ottobre scorso una conferenza stampa con membri dell’esecutivo di Hamas al Parlamento turco, e i partiti Felicità (Saadet) e Futuro (Gelecek Partisi), che hanno tenuto un a serie di conferenze stampa pro-Hamas congiunte all’indomani del 7 ottobre, l’AKP, venuta meno la possibilità di mediazione internazionale, ha deciso di scendere in campo per la Palestina, ricalibrando la grande parata nazionale del 28 ottobre, originariamente pensata come giornata di celebrazione del centenario della Repubblica turca, come una giornata di solidarietà con Gaza. Una scelta, come osserva l’analista Salim Çevik del SWP Berlin (30 novembre 2023), che appare “calcolata (apposta) per innescare una reazione nell’opposizione (laica), creando una dicotomia tra la fedeltà agli ideali repubblicani dell’opposizione e il sostegno a Gaza” e confermata dall’invito rivolto solo ai partiti appartenenti all’Alleanza popolare, e non a quelli dell’opposizione (CHP del leader Kemal Kılıçdaroğlu in primis), a parteciparvi. In sintesi, la Turchia di Erdoğan emerge come un attore molto meno ideologico e molto più pragmatico di quanto i giornali occidentali la descrivano, con un Presidente principalmente interessato a proporsi come mediatore in tutti quei contesti internazionali in cui si crea uno spazio diplomatico, anche al fine di assecondare meglio le richieste del suo elettorato.

Nonostante le posizioni della Turchia in molti scenari regionali, come la riapertura dei contatti diplomatici di alto livello con il regime siriano di Bashar al-Assad nel 2022 o il mantenimento di buone relazioni diplomatiche e commerciali con l’Iran sembrino distanti da quelle di UE e NATO – un recente rapporto della Commissione europea calcola un allineamento tra le rispettive politiche estere pari solo al 10% nel 2023-, è utile ricordare che Ankara rimane un attore razionale, pragmatico e flessibile che può rappresentare un intermediario indispensabile con tutti quei Paesi e movimenti politici con cui l’Occidente non mantiene contatti diretti, ma con cui, all’interno di una regione altamente destabilizzata come il Medio Oriente, diventa obbligatorio continuare a dialogare. La Turchia rimane, infatti, un attore imprescindibile tanto nel Caucaso che nel Mediterraneo, ovvero in una vasta area problematica posta appena oltre i confini dell’UE e dalle cui molteplici e ricorrenti crisi è impossibile immaginare che Bruxelles rimanga a lungo preservata.

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