Approfondimenti

Afghanistan Talebano: tra repressione interna, isolamento internazionale, minaccia terroristica e sfide geopolitiche

Un Paese sospeso tra autoritarismo e instabilità: il ritorno dei Talebani al potere tra violazioni dei diritti umani, crisi umanitaria, isolamento diplomatico e nuovi equilibri regionali che coinvolgono potenze globali e attori non statali. Di seguito l’approfondimento di Giuseppe Mancini, pubblicato nel nostro Report Annuale 2025.

Nel 2024 l’Afghanistan si è trovato ad affrontare una delle fasi più critiche della sua storia recente, segnando il terzo anno di governo talebano in un contesto di isolamento diplomatico, crisi economica e persistente instabilità. Il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021, a seguito del ritiro delle truppe statunitensi, ha invertito molti dei progressi ottenuti nei due decenni precedenti sotto l’influenza occidentale, riportando il paese a una gestione fortemente autoritaria e teocratica.

Le speranze iniziali di un governo più moderato si sono dissolte rapidamente con l’introduzione di restrizioni sempre più rigide, in particolare nei confronti delle donne, private dell’accesso all’istruzione, al lavoro e alla libertà di movimento. Parallelamente, la repressione politica si è intensificata, soffocando ogni forma di dissenso e rafforzando il controllo talebano su tutti gli aspetti della società. Questo ha aggravato ulteriormente il quadro economico e sociale, già compromesso dal crollo degli aiuti internazionali e dall’inefficacia delle politiche governative nel garantire sviluppo e sicurezza.

A livello internazionale, il regime ha continuato a subire un progressivo isolamento, con le principali potenze mondiali che hanno mantenuto il rifiuto circa un possibile riconoscimento ufficiale a causa delle violazioni sistematiche dei diritti umani e dei legami con gruppi jihadisti. I rapporti con i paesi vicini sono rimasti ambigui, oscillando tra tensioni, scontri militari e tentativi di cooperazione economica e diplomatica. Tuttavia, la crisi umanitaria ha raggiunto livelli allarmanti, con milioni di persone dipendenti dagli aiuti esterni per la sopravvivenza, mentre l’economia nazionale ha continuato a deteriorarsi, segnata da un deficit commerciale crescente, elevata inflazione e mancanza di investimenti.

In questo contesto, l’Afghanistan entra nel 2025 in una condizione di profonda incertezza. Il terrorismo, in particolare l’ascesa dello Stato Islamico della Provincia del Khorasan (ISKP), rappresenta una minaccia costante, non solo per la stabilità interna ma anche per la sicurezza regionale e globale. La combinazione di isolamento diplomatico, repressione interna e crisi economica sta spingendo il paese verso un possibile collasso. La domanda che sorge, dunque, è se l’Afghanistan sia destinato a diventare uno stato fallito o se riuscirà a trovare una via di sopravvivenza in un panorama geopolitico sempre più instabile.

Un regime teocratico di repressione e controllo

Dopo aver preso il controllo dell’Afghanistan il 15 agosto 2021, i Talebani hanno instaurato un Emirato Islamico, trovandosi di fronte a un paese molto diverso rispetto alla loro prima esperienza di governo tra il 1996 e il 2001. In vent’anni, l’Afghanistan aveva conosciuto una crescita economica significativa, con un’economia tre volte più grande, una rete sanitaria ampliata con oltre 3.000 strutture operative rispetto alle 450 del 2000 e una pubblica amministrazione quintuplicata nel numero di impiegati. Anche il sistema educativo aveva subito cambiamenti importanti, con un terzo degli studenti universitari composto da donne nel 2019, mentre nel 2000 la loro presenza era completamente assente. Nonostante queste trasformazioni, il nuovo governo talebano ha mantenuto una linea rigida, senza moderare la propria ideologia per ottenere riconoscimento internazionale o aiuti finanziari.

Il 14 agosto 2024, i Talebani hanno celebrato il terzo anniversario della presa di Kabul con una parata militare a Bagram, esibendo armamenti statunitensi e sovietici abbandonati, in un chiaro messaggio di potenza e resistenza alle pressioni interne ed esterne. Tuttavia, dietro questa dimostrazione di forza, l’Afghanistan resta un paese fragile e instabile, attraversato da profonde divisioni interne che, anziché consolidare il regime, rischiano di minarne ulteriormente la tenuta nel prossimo futuro.

L’Emirato Islamico è l’unico stato al mondo privo di una costituzione, governato esclusivamente attraverso decreti emessi dal Supremo Leader, Hibatullah Akhundzada. Le leggi della precedente Repubblica Islamica dell’Afghanistan sono state completamente abolite e il sistema giuridico si basa unicamente sulla Sharia hanafita[1], con tribunali che applicano il diritto islamico accanto a consuetudini tribali (Pashtunwali). Il governo è strutturato come una teocrazia altamente centralizzata, priva di una strategia di sviluppo chiara, e le istituzioni pubbliche sono state progressivamente riempite di fedelissimi talebani, spesso privi di esperienza amministrativa.

Tra il 2020 e il 2023 il numero di dipendenti pubblici è cresciuto da 415.000 a oltre un milione, con un aumento del 120%. La maggior parte delle nuove assunzioni ha riguardato ex combattenti talebani, mentre il Ministero per gli Affari Femminili è stato abolito e sostituito dal Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, che impiega migliaia di funzionari religiosi incaricati di far rispettare le rigide norme islamiche. Il processo decisionale è opaco e privo di trasparenza: non esiste un piano di sviluppo strutturato e le decisioni vengono prese su base discrezionale dal Supremo Leader.

La repressione del dissenso resta una caratteristica centrale del regime. I partiti politici sono vietati, la società civile è repressa e la libertà di stampa è drasticamente limitata. Tra il 2023 e il 2024, l’Afghanistan ha perso 26 posizioni nell’Indice mondiale della libertà di stampa, classificandosi tra i paesi con il peggior ambiente mediatico. Nel luglio 2024, la Legge sulla Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio hanno formalizzato restrizioni già in vigore, rafforzando il controllo sociale.

Dal 2021, i Talebani hanno smantellato progressivamente i diritti delle donne attraverso centinaia di decreti, culminati tra agosto e settembre 2024 in una nuova legge sulla moralità pubblica che ha imposto 35 ulteriori restrizioni, ancora più oppressive. Tra queste, l’obbligo per le donne di coprirsi integralmente in pubblico e il divieto di accesso alle scuole di medicina – ultimo ambito formativo ancora consentito – segnano la fine definitiva dell’istruzione superiore femminile. Escluse da scuole, università e impieghi pubblici, le donne sono costrette a rispettare rigide norme di abbigliamento e possono uscire solo se accompagnate da un parente maschio. Con queste misure, il regime ha cancellato ogni traccia della loro presenza nella vita pubblica, spegnendo ogni possibilità di emancipazione. Nonostante la condanna internazionale, i Talebani restano inflessibili, rafforzando un sistema di repressione totale.

L’Afghanistan di oggi è un paese in profonda crisi, isolato a livello internazionale e con una popolazione sempre più oppressa. L’estremismo ideologico dei Talebani ha reso difficile qualsiasi forma di supporto economico e diplomatico, aggravando la situazione interna. La pubblica amministrazione, gestita da personale inesperto e priva di una chiara visione politica ed economica, risulta inefficiente. Il malcontento cresce, ma il controllo esercitato dal governo, attraverso un apparato repressivo capillare, soffoca qualsiasi forma di dissenso.

Divisioni Interne e Fragilità del Potere

I Talebani non sono un blocco monolitico, ma una coalizione frammentata da profonde divisioni tribali, etniche e politiche. Dietro l’apparente unità del regime, si cela una lotta costante tra fazioni con visioni e interessi divergenti. A dominare la scena è il Supremo Leader Hibatullah Akhundzada, che ha centralizzato il potere a Kandahar, marginalizzando i leader di Kabul e consolidando il proprio controllo attraverso epurazioni, nomine mirate e la creazione di un esercito privato di 40.000 uomini. La sua strategia ha ridotto l’influenza di figure chiave come il Ministro della Difesa Mohammad Yaqoub e il Vice Primo Ministro Abdul Ghani Baradar, costringendoli ad accettare un ruolo sempre più marginale. La concentrazione del potere ha generato tensioni interne, con il network Haqqani, guidato da Sirajuddin Haqqani, che ambisce a maggiore autonomia e che ha contestatoalcune decisioni di Akhundzada, senza però riuscire a rovesciarlo.

Nel sud, i Talebani kandahari, più conservatori e vicini alla visione di Akhundzada, detengono il controllo religioso e ideologico del regime, imponendo decreti ultra-conservatori come il divieto dell’istruzione femminile. Diversamente, i Talebani di Kabul, più pragmatici, cercano un equilibrio tra governo repressivo e necessità di mantenere relazioni diplomatiche ed economiche con l’estero. La situazione è ancora più tesa nel nord, dove le fazioni talebane di etnia uzbeka e tagika, inizialmente alleate del regime, sono state progressivamente emarginate. Alcuni gruppi sono passati all’opposizione o si sono uniti all’ISIS-Khorasan (ISKP), l’organizzazione jihadista rivale che minaccia la stabilità talebana dall’interno.

Le divisioni interne emergono chiaramente anche nella gestione della sicurezza e dell’economia. Il regime ha ampliato le sue forze armate fino a 350.000 uomini, ma la mancanza di fondi per equipaggiamento e salari ha generato insoddisfazione tra le truppe. La repressione violenta contro i gruppi di opposizione, come il Fronte di Resistenza Nazionale (NRF) e il Fronte di Libertà dell’Afghanistan (AFF), non ha placato il malcontento, mentre l’ISIS-K continua a infiltrarsi tra le forze di sicurezza e a colpire obiettivi strategici. L’economia, nel frattempo, è in crisi e la stragrande maggioranza della popolazione non può permettersi beni essenziali. La tassazione eccessiva ha innescato proteste tra commercianti e agricoltori, mentre la gestione delle risorse minerarie è monopolizzata da gruppi di potere legati a Sirajuddin Haqqani e Abdul Ghani Baradar, alimentando corruzione e disuguaglianze interne.

Riconoscimento internazionale: tra isolamento e diplomazia di fatto

Dal ritorno al potere nell’agosto 2021, i Talebani hanno cercato di ottenere il riconoscimento internazionale per il loro Emirato Islamico dell’Afghanistan, ma finora nessun paese ha ufficialmente legittimato il loro governo. La comunità globale ha posto condizioni chiare: rispetto dei diritti umani, in particolare per donne e minoranze, e la formazione di un governo inclusivo. Tuttavia, il regime ha rifiutato di fare concessioni significative, mantenendo politiche repressive che hanno alimentato l’isolamento diplomatico. Nonostante ciò, diverse nazioni hanno sviluppato relazioni de facto con i Talebani, bilanciando esigenze pragmatiche con il rifiuto di una legittimazione formale.

Cina, Russia e Iran sono tra i paesi che hanno instaurato rapporti più stretti con il regime. Pechino, nel gennaio 2024, è stata la prima potenza non musulmana ad accettare le credenziali di un ambasciatore talebano, un segnale di apertura economica e strategica senza però un riconoscimento ufficiale. Mosca, pur mantenendo la propria ambasciata a Kabul, ha seguito un approccio simile, accettando diplomatici talebani già dal 2022 e mostrando recentemente un maggiore interesse a rafforzare i legami. Teheran, dopo una fase iniziale di tensione, ha formalmente trasferito l’ambasciata afghana ai Talebani nel 2023, motivata da questioni di sicurezza e dalla gestione dei rifugiati lungo il confine. Anche l’India, pur evitando un riconoscimento ufficiale, ha intensificato i contatti con Kabul per preservare la sua influenza nella regione, soprattutto su questioni economiche e umanitarie.

Nel 2024, alcuni passi verso la normalizzazione diplomatica sono stati compiuti. L’Arabia Saudita ha riaperto la sua ambasciata a Kabul, un gesto che, sebbene ancora lontano da un riconoscimento ufficiale, rappresenta un primo tentativo di riavvicinamento. Kirghizistan e Kazakistan hanno rimosso i Talebani dalla lista delle organizzazioni bandite, un passaggio che potrebbe aprire la strada a un graduale riconoscimento. Parallelamente, Russia, Emirati Arabi Uniti e Uzbekistan hanno avviato colloqui più strutturati con il governo talebano, valutando possibili forme di cooperazione diplomatica. Anche Turkmenistan e Kazakistan hanno accettato rappresentanti talebani nelle loro ambasciate, ampliando ulteriormente la rete di interazioni diplomatiche informali.

La resistenza occidentale al riconoscimento del regime rimane solida, con Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite che rifiutano qualsiasi legittimazione a causa delle violazioni sistematiche dei diritti umani, della mancata inclusività del governo e dei legami con gruppi jihadisti. I Talebani, dal canto loro, hanno dimostrato scarsa volontà di adeguarsi alle richieste internazionali, rifiutando di formare un governo rappresentativo o di revocare le restrizioni imposte alle donne. Tuttavia, il loro obiettivo di ottenere una crescente accettazione internazionale prosegue attraverso una strategia pragmatica: rafforzare i rapporti con i paesi vicini, ottenere accreditamenti diplomatici, attrarre investimenti esteri e cercare la revoca delle sanzioni economiche.

Un segnale tangibile di questa strategia è l’avanzamento del progetto ferroviario Trans-Afghanistan, che dovrebbe collegare Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan con il sostegno di Uzbekistan e Kazakistan. Con un valore stimato di 4,8 miliardi di dollari, questa infrastruttura potrebbe rafforzare la posizione economica dell’Afghanistan nella regione, ma il suo successo dipenderà dalla stabilità politica e dalla capacità dei Talebani di garantire sicurezza agli investitori.

Nonostante questi sviluppi, il riconoscimento ufficiale dell’Emirato Islamico rimane incerto. Mentre alcuni paesi rafforzano le relazioni per ragioni strategiche ed economiche, il regime continua a scontrarsi con il rifiuto globale di legittimare un governo che ha escluso metà della popolazione dalla vita pubblica e mantiene legami con gruppi jihadisti. In assenza di riforme significative, il futuro diplomatico dei Talebani sembra destinato a rimanere sospeso tra accettazione informale e isolamento politico.

Epicentro del Terrorismo e minaccia per la sicurezza internazionale

L’Afghanistan è tornato a essere un fulcro del terrorismo globale, con una molteplicità di gruppi jihadisti che operano nel paese senza reali restrizioni. Nonostante i Talebani abbiano consolidato il proprio potere, la loro capacità di governare è seriamente minata dall’ascesa dello ISKP, dalla rinascita di Al-Qaeda, dalla crescente influenza della Rete Haqqani e dall’escalation delle tensioni con il Pakistan. Il paese è sempre più un terreno di scontro tra fazioni jihadiste rivali, con conseguenze dirette sulla sicurezza globale.

Dal 2021, l’ISKP è diventato il nemico numero uno dei Talebani, intensificando gli attacchi contro obiettivi governativi e civili. Nel dicembre 2024, un attentato suicida ha ucciso Khalil Ur-Rahman Haqqani, uno degli uomini chiave del regime, rivelando le falle nella sicurezza interna. Il gruppo jihadista ha inoltre rafforzato la propria rete operativa in Afghanistan, adottando tattiche sempre più sofisticate e espandendo il reclutamento in Asia Centrale, con implicazioni preoccupanti per la stabilità regionale.

Sul piano internazionale, l’ISKP ha ampliato il proprio raggio d’azione oltre l’Afghanistan, colpendo Russia, Iran e minacciando l’Europa. A marzo 2024, un attacco terroristico rivendicato dal gruppo ha provocato decine di vittime in Russia, mentre a gennaio un attentato suicida in Iran ha causato decine di morti. Secondo il Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM), il gruppo potrebbe essere in grado di lanciare un attacco terroristico contro obiettivi occidentali di grande portata.

Dopo anni di indebolimento, Al-Qaeda sta rafforzando la propria presenza in Afghanistan, sfruttando i legami storici con i Talebani e la protezione della Rete Haqqani. Nonostante l’eliminazione del leader Ayman al-Zawahiri in un raid statunitense a Kabul nel 2022, il gruppo ha ricostituito campi di addestramento nell’est dell’Afghanistan, con un focus sulla formazione di nuove generazioni di jihadisti.

Il nuovo leader di Al-Qaeda, Sayf al-Adl, presumibilmente rifugiato in Iran, ha riorganizzato la struttura del gruppo e intensificato il coordinamento con l’affiliata regionale, Al-Qaeda nel Subcontinente Indiano (AQIS), responsabile di operazioni terroristiche in Asia meridionale. Questa riorganizzazione indica che Al-Qaeda, pur meno visibile rispetto all’ISKP, rimane una minaccia latente, pronta a colpire in caso di nuove opportunità strategiche.

La Rete Haqqani, guidata da Sirajuddin Haqqani, Ministro dell’Interno talebano, è il cuore pulsante del terrorismo in Afghanistan. Un gruppo semi-autonomo che ha un’influenza sproporzionata all’interno del regime e continua a fungere da ponte tra i Talebani e Al-Qaeda, garantendo protezione ai jihadisti e gestendo i traffici illeciti che finanziano le operazioni terroristiche.

Le Nazioni Unite hanno segnalato che la Rete Haqqani è pesantemente coinvolta nel traffico di metanfetamine e altre droghe sintetiche, una delle principali fonti di finanziamento del regime. Inoltre, la Rete è sospettata di fornire supporto logistico e protezione ai leader dell’ISKP, contribuendo alla frammentazione dell’apparato di sicurezza afghano e alimentando il caos nel paese.

Il fermento terroristico è alla base dell’escalation delle tensioni tra Afghanistan e Pakistan. Infatti, nel 2024, le relazioni tra Afghanistan e Pakistan hanno raggiunto un livello di tensione mai visto prima, con scontri armati lungo il confine, raid aerei e accuse reciproche. Il principale fattore scatenante è stata l’attività del Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), un gruppo militante con basi in Afghanistan che ha intensificato gli attacchi contro il Pakistan, causando centinaia di vittime.

Il 21 dicembre 2024, un assalto del TTP a un avamposto pakistano ha provocato 16 morti tra i soldati, spingendo Islamabad a lanciare raid aerei nelle province afghane di Paktika e Khost, dove si ritiene si nascondano i leader del gruppo. Tuttavia, questi attacchi hanno colpito non solo militanti, ma anche civili, causando una forte reazione del governo talebano, che ha accusato il Pakistan di violare la sovranità afghana e ha minacciato ritorsioni.

La situazione è ulteriormente aggravata dalla storica disputa sulla Durand Line[2], il confine contestato tra i due paesi, teatro di scontri per la costruzione di nuovi avamposti militari.

Nonostante l’escalation, entrambi i governi hanno cercato di trovare soluzioni diplomatiche, incontrandosi più volte per discutere di sicurezza e commercio transfrontaliero. Tuttavia, la reciproca sfiducia ha reso i colloqui poco produttivi: il Pakistan accusa Kabul di proteggere il TTP, mentre i Talebani denunciano le incursioni aeree pakistane come atti di aggressione.

La Cina, preoccupata per la sicurezza dei suoi investimenti infrastrutturali nella regione, ha esercitato pressioni su Islamabad per contenere il TTP, gruppo che ha colpito diverse volte interessi cinesi in Pakistan. Questo ha probabilmente influenzato la decisione pakistana di intensificare le operazioni militari, aumentando il rischio di un conflitto su vasta scala.

L’Afghanistan ospita, inoltre, numerosi altri gruppi jihadisti regionali che operano senza restrizioni, tra cui il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU) e l’Eastern Turkistan Islamic Movement (ETIM), entrambi considerati una minaccia diretta per l’Asia Centrale e la Cina. La presenza di questi gruppi ha portato Pechino a rafforzare la pressione sui Talebani, chiedendo un’azione più decisa per contenere la minaccia. Tuttavia, la capacità del regime di controllare il territorio appare sempre più limitata.

Secondo il rapporto dell’Austrian Centre for Country of Origin and Asylum Research and Documentation (ACCORD), basato sui dati dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), nel 2024 l’Afghanistan ha registrato 1.459 incidenti di conflitto e 1.399 vittime, con Kabul come epicentro della violenza. Gli attacchi con ordigni esplosivi improvvisati (IEDs) e gli scontri tra forze di sicurezza e jihadisti hanno causato centinaia di morti, mentre le province di Hirat, Takhar e Nangarhar rimangono tra le più colpite.

Crisi Economica e Umanitaria tra Fragilità e Resistenza

L’Afghanistan affronta una delle peggiori crisi economiche e umanitarie della sua storia recente. Nonostante una crescita economica del 2,7% nel 2024, la ripresa rimane fragile e insufficiente a compensare le perdite subite negli ultimi anni. Il paese continua a lottare con un deficit commerciale in aumento, alti livelli di disoccupazione e un’economia dipendente dalle importazioni, aggravata dall’isolamento diplomatico e dalla mancanza di investimenti esteri.

L’economia afghana è ancora segnata dal crollo degli aiuti internazionali successivo alla presa di potere talebana nel 2021. Le sfide strutturali restano gravi: l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro ha ridotto il PIL di circa un miliardo di dollari, privando l’economia di una componente essenziale per la crescita e la stabilità sociale. La mancanza di opportunità economiche ha spinto milioni di afghani verso il lavoro informale, limitando l’accesso a redditi stabili e reti di sicurezza sociale.

Il settore agricolo, fondamentale per la sussistenza di gran parte della popolazione, è stato duramente colpito da cambiamenti climatici, insicurezza e carenza di investimenti. La decisione dei Talebani di vietare la coltivazione dell’oppio ha avuto conseguenze economiche pesanti, privando milioni di agricoltori della loro principale fonte di reddito e spingendo molte famiglie nella povertà estrema. Tuttavia, il divieto non ha eliminato completamente la produzione: nel 2024, la coltivazione del papavero è aumentata del 19% rispetto all’anno precedente, sebbene resti ben al di sotto dei livelli pre-ban. Il valore economico del raccolto di oppio è stimato in 260 milioni di dollari, un aumento del 130% rispetto al 2023, ma ancora inferiore dell’80% rispetto al 2022.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC), il declino della produzione di oppio potrebbe avere conseguenze impreviste. Da un lato, rappresenta un passo positivo nella lotta al narcotraffico, ma dall’altro aumenta il rischio di espansione del mercato delle droghe sintetiche, in particolare la metanfetamina, già in crescita nel paese. La riduzione dell’oppio ha inoltre accentuato le disparità regionali: mentre le province sud-occidentali hanno visto un calo della coltivazione, nel nord-est dell’Afghanistan la produzione è aumentata, sollevando preoccupazioni sul controllo del territorio da parte di gruppi criminali e reti di traffico internazionale.

Se sul piano economico la ripresa è lenta e disomogenea, la situazione umanitaria è drammatica. Oltre 23,7 milioni di persone necessitano di assistenza, con il 95% delle famiglie che non ha accesso a cibo sufficiente e 6 milioni a rischio carestia. Il divieto di lavoro per le donne nelle ONG ha reso ancora più difficile la distribuzione degli aiuti, limitando la capacità delle organizzazioni umanitarie di raggiungere le fasce più vulnerabili della popolazione. Secondo un rapporto pubblicato nel febbraio 2025 dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), la crisi si è ulteriormente aggravata, spingendo l’organizzazione a espandere le operazioni di soccorso. Nel corso del 2024, l’ICRC, in collaborazione con la Mezzaluna Rossa Afghana (ARCS), ha fornito assistenza sanitaria a quasi un milione di persone, di cui il 65% donne e bambini. Sono state somministrate 312.000 dosi di vaccini e trattati 8.788 bambini malnutriti in programmi nutrizionali specifici.

Il conflitto e le difficili condizioni di vita hanno avuto un impatto devastante sulla popolazione. Nei sette centri di riabilitazione fisica sostenuti dall’ICRC nel 2024 sono stati trattati 215.274 pazienti, con la produzione di 34.036 dispositivi protesici e ortopedici e l’esecuzione di 325.313 sessioni di fisioterapia. La crescente incidenza di ferite da conflitto ha reso questi servizi essenziali per la sopravvivenza e il recupero di migliaia di afghani.

L’accesso alle risorse di base rimane uno dei principali problemi per milioni di afghani. Nel 2024, circa 1,12 milioni di persone nelle principali città come Kabul, Herat, Kandahar e Kunduz hanno beneficiato di interventi per migliorare la fornitura di acqua potabile, mentre 460.000 persone in sei province hanno visto un potenziamento dell’accesso all’elettricità. Tuttavia, vaste aree del paese continuano a soffrire di gravi carenze infrastrutturali, aggravate dalla mancanza di investimenti pubblici e dalla precarietà del governo talebano.

L’insicurezza alimentare rimane un’emergenza. Per far fronte alla crisi, l’ICRC ha distribuito aiuti economici diretti a 44.992 famiglie nelle province più colpite, come Balkh, Badakhshan e Nangarhar, mentre 50.584 agricoltori hanno ricevuto sostegno per l’acquisto di semi, fertilizzanti e attrezzature agricole. Questi interventi, sebbene cruciali, non bastano a colmare il divario tra domanda e offerta alimentare.

Uno degli aspetti più critici della crisi riguarda la presenza diffusa di mine terrestri e ordigni inesplosi, che rendono l’Afghanistan uno dei paesi più contaminati al mondo. Per ridurre i rischi, l’ICRC ha lanciato campagne di sensibilizzazione sulla sicurezza, in collaborazione con la Mezzaluna Rossa Afghana, con l’obiettivo di proteggere la popolazione, in particolare nelle zone rurali.

Prospettive tra crisi, isolamento e le Incognite della Presidenza Trump

L’Afghanistan è sospeso tra un fragile equilibrio interno e l’isolamento internazionale. Dopo tre anni di governo talebano, affronta una crisi economica, umanitaria e di sicurezza in peggioramento. L’esclusione delle donne dal lavoro, il calo degli aiuti internazionali e il divieto di coltivazione dell’oppio hanno aggravato l’instabilità economica, mentre l’espansione dell’ISKP minaccia la sicurezza interna e regionale. A complicare ulteriormente il quadro è il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, un evento che potrebbe ridisegnare le relazioni tra Kabul e Washington, con effetti potenzialmente devastanti per il già fragile tessuto economico e sociale del paese.

Se i Talebani continueranno a governare senza attuare riforme significative, il rischio di una nuova insurrezione interna e di un ulteriore isolamento diplomatico diventerà sempre più concreto. Il Fronte di Resistenza Nazionale e altri gruppi di opposizione stanno intensificando le loro attività, mentre le divisioni interne tra le varie fazioni talebane minano la coesione del regime. Nel frattempo, l’incapacità di contenere l’ISKP sta trasformando l’Afghanistan in un epicentro del jihadismo globale, attirando l’attenzione e la preoccupazione di attori internazionali come Cina, Russia e Iran, che temono ripercussioni dirette sulla propria sicurezza.

Sul piano umanitario, l’Afghanistan è sull’orlo di una catastrofe, con una popolazione sempre più stremata dalla fame e dalla mancanza di risorse essenziali. La drastica riduzione degli aiuti internazionali, aggravata dalle restrizioni imposte dai Talebani e dalle politiche dei governi occidentali, ha reso la sopravvivenza un’impresa disperata per milioni di persone. Senza interventi urgenti, il paese rischia di precipitare in una crisi irreversibile, lasciando intere comunità senza cibo, acqua e cure mediche. In questo contesto critico, l’atteggiamento della nuova amministrazione statunitense rappresenta un ulteriore fattore di destabilizzazione. Se nel corso della sua prima presidenza Trump aveva negoziato direttamente con i Talebani per il ritiro delle truppe americane, il suo ritorno alla Casa Bianca sembra segnare un’inversione di rotta. Già nei giorni finali della presidenza Biden, i Talebani avevano cercato di facilitare un potenziale riavvicinamento con Washington scambiando due cittadini americani con un loro membro incarcerato negli Stati Uniti. Tuttavia, l’amministrazione Trump ha adottato una linea molto più dura, annunciando la possibilità di porre taglie sui leader talebani per forzare il rilascio di eventuali ostaggi americani e sollevando la questione del recupero delle armi lasciate in Afghanistan durante il caotico ritiro del 2021, una richiesta immediatamente respinta dai portavoce talebani. Sul piano economico, la decisione di sospendere per 90 giorni gli aiuti internazionali statunitensi ha già avuto un impatto devastante sugli sforzi umanitari nel paese. Gli Stati Uniti, anche dopo il ritiro militare, erano rimasti il più grande donatore di aiuti all’Afghanistan, fornendo circa 3,63 miliardi di dollari tra ottobre 2021 e dicembre 2024. Se la politica di “America First” dovesse tradursi in una sospensione permanente di questi fondi, la situazione umanitaria potrebbe rapidamente degenerare.

L’inasprimento della politica americana rischia di spingere l’Afghanistan ancora più nelle braccia di potenze rivali come la Cina e la Russia. Pechino ha già stabilito relazioni de facto con i Talebani, investendo in progetti infrastrutturali e minerari, ma senza un riconoscimento internazionale formale, il regime continuerà a faticare nel garantire una ripresa economica sostenibile. Mosca, dal canto suo, osserva con preoccupazione l’evoluzione della situazione, consapevole che un Afghanistan instabile potrebbe minacciare le ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. L’Unione Europea, invece, si trova in una posizione ambivalente: pur condannando apertamente la repressione talebana, teme che un ulteriore deterioramento della situazione possa scatenare una nuova crisi migratoria con ripercussioni dirette sui paesi membri. Il rischio concreto è che l’Afghanistan scivoli definitivamente verso lo status di “stato paria”, completamente dipendente dal sostegno economico cinese e dall’appoggio militare russo, un assetto che potrebbe rafforzare ulteriormente l’asse Mosca-Pechino e ridurre l’influenza occidentale nella regione.

D’altra parte, una strategia troppo aggressiva da parte degli Stati Uniti potrebbe avere effetti collaterali imprevisti. Un Afghanistan ancora più isolato potrebbe trasformarsi in un rifugio sicuro per gruppi jihadisti, esacerbando la minaccia terroristica su scala globale. Senza un compromesso tra la necessità di aiuti umanitari e la pressione diplomatica per un cambiamento di rotta del regime, il rischio è che il paese sprofondi in un’instabilità cronica, con conseguenze che potrebbero estendersi ben oltre i suoi confini. Il futuro dell’Afghanistan si gioca, dunque, su un equilibrio precario tra le scelte del regime talebano e le strategie delle grandi potenze. Il ritorno di Trump ha aggiunto nuove incognite a uno scenario già compromesso, rendendo ancora più difficile prevedere quale direzione prenderà il paese nei prossimi anni. Se la comunità internazionale non troverà il modo di bilanciare sanzioni, aiuti e pressioni politiche in modo efficace, il rischio di un collasso totale diventerà una realtà imminente. La finestra per un cambiamento rimane aperta, ma il tempo sta rapidamente scadendo.

Per saperne di più, consulta il nostro Report Annuale


[1] La Sharia hanafita è una delle quattro scuole giuridiche sunnite, fondata da Abu Hanifa (699-767 d.C.). Si distingue per l'uso della razionalità (ra'y), dell'analogia (qiyas) e della preferenza giuridica (istihsan), permettendo flessibilità nell'applicazione del diritto islamico. Le sue norme regolano culto, diritto familiare e transazioni commerciali, ed è la scuola più diffusa, con seguaci in Asia centrale, meridionale e nell'ex Impero Ottomano.

[2] La Linea Durand, tracciata nel 1893 tra Afghanistan e Pakistan dall'emiro Abdur Rahman Khan e Sir Mortimer Durand, divide artificialmente popolazioni pashtun, generando tensioni tuttora irrisolte. Sebbene il Pakistan la riconosca come confine ufficiale, l'Afghanistan ne contesta la legittimità, influenzando le relazioni bilaterali e la stabilità regionale.

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