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Gli Usa e il tentativo di un accordo storico tra Israeliani e Sauditi

Dopo mesi di contatti segreti, la possibilità di un’intesa storica è cominciata a trapelare nel giugno scorso. Recentemente l’ipotesi è tornata sotto i riflettori con la missione a New York di Netanyahu. Il punto di Stefano Marroni

Un accordo stringente sulla sicurezza, modellato su quelli che fin dagli anni ’50 hanno cementato in Estremo Oriente il rapporto tra gli Stati uniti, il Giappone e la Corea: un accordo militare che preveda il sostegno reciproco in caso di aggressione da parte di “potenze ostili” nella regione, anche se probabilmente senza un ulteriore dispiegamento di truppe americane sul terreno. È attorno a questa intesa che - dopo mesi di contatti ultrariservati - nel corso dell’estate si è sviluppata la più importante iniziativa diplomatica dell’amministrazione di Joe Biden. Obiettivo, portare finalmente al tavolo di un accordo di pace con Israele l’attore principale della scena politico-militare e religiosa del mondo musulmano: l’Arabia Saudita.

Uno scenario da fantascienza anche solo un anno fa, con il mondo indignato per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi e l’intervento saudita in Yemen. Ma il quadro mondiale è cambiato. Ora, Biden è pronto a giocare una carta che in caso di successo può rimettere seriamente in pista la sua traballante corsa per la conferma alla Casa Bianca. E soprattutto impedire che il suo principale alleato nel Golfo, dopo aver subito il costo della politica green dell’Occidente e soprattutto dell’ormai consolidata autosufficienza energetica degli Usa, si lanci in pericolosi giri di valzer con Putin e Xi, come quelli che a Washington nei mesi scorsi hanno vissuto come un dito nell’occhio. Sul piatto, il presidente americano ha da mettere l’impegno a sostenere militarmente Riyadh contro l’Iran, in cambio di un impegno a stabilizzare l’intera area mettendo fine all’ostilità contro Israele.

Dopo mesi di contatti segreti, la possibilità di un’intesa è cominciata a trapelare nel giugno scorso, dopo la missione a Riyadh del segretario di stato americano Antony Blinken, vis à vis con il principe ereditario Mohammed bin Salman. Ma la scorsa settimana a metterla sotto i riflettori è stata la missione a New York del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il terzo uomo sull’asse Washington-Riyadh. Il democratico Biden ha tenuto il punto di una lontananza politica ed umana che - durante il suo mandato - non gli ha mai fatto aprire le porte della Casa Bianca al leader della destra israeliana. Ma al suo interlocutore – alla ricerca di un via d’uscita dalla crisi politica interna e di immagine internazionale innescata dal suo governo negli ultimi mesi – ha fatto una proposta di quelle che non si possono rifiutare. Offrendo a Israele un’apertura saudita che farebbe impennare il processo di normalizzazione delle relazioni con il mondo arabo, dopo gli “accordi di Abramo” con Emirati e Bahrein e poi con il Marocco. E - soprattutto - rafforzando il più importante avversario dell’Iran nell’area del Golfo.

Su questo scenario in movimento si inseriscono i calcoli di tutti i giocatori in campo, consapevoli - a fronte di rischi e resistenze - dei grandi dividendi per ciascuno di loro, in politica interna e sulla scena internazionale, di un’intesa che sarebbe epocale. Al punto che nella partita, per non perdere tutto, hanno deciso di scendere anche i palestinesi. Già a marzo, durante una vista a Jeddah, il presidente Mahmoud Abbas aveva avuto sentore di una situazione in movimento. A seguire, in agosto, Riyadh ha per la prima volta nominato un proprio inviato, Naif al-Sudairi, a Ramallah. E nei primi giorni di settembre tre negoziatori palestinesi sono volati a Riyadh per chiedere ai sauditi di non lasciarli fuori dalla porta. Ufficialmente, nel clima di indignazione popolare per quella che viene definita la “politica di apartheid” perseguita dal governo israeliano Israele nei Territori sulla spinta dell’ultradestra alleata di Netanyahu, i rappresentanti di Abbas hanno insistito sulla tradizionale richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme Est: “Chiediamo una sola cosa: mettere in campo una più forte iniziativa di pace araba”, ha dichiarato Majidi Khaldi dopo gli incontri. Ma diverse fonti spiegano che in realtà – accanto alla richiesta di riattivare il flusso degli aiuti all’Autorità palestinese – ai sauditi Abbas chiede di inserire nel negoziato con gli Stati Uniti la richiesta di sostenere la piena ammissione palestinese nell’Onu e di imporre a Israele di cedere a Abbas il controllo di una porzione maggiore della West Bank.

Richieste impegnative, ma che in patria Mohammed bin Salman non può liquidare con un’alzata di spalle. Non per caso, secondo un retroscena molto informato di Thomas Friedman sul New York Times, nel faccia a faccia con Netanyahu Biden è partito proprio dai sauditi. Se vogliamo che normalizzino i loro rapporti con voi – ha spiegato – dobbiamo sapere che per loro “sarà molto dura” mettere da parte l’ostilità contro di voi di tutto il mondo arabo, e la politica tradizionale del padre di bin Salman, il re Salman bin Abdulaziz. Quanto a me – ha aggiunto il presidente – devo firmare un accordo militare di mutua difesa e fornire più armi a un paese che ho definito “un paria” solo tre anni fa. È una cosa che potrebbe andare di traverso a gran parte del Congresso – avrebbe proseguito Biden – esattamente come la scelta di consentire a Riyad di varare un programma di arricchimento dell’uranio a uso civile che controlleremmo strettamente, ma che non piacerà a molti, e credo nemmeno a te. Insomma, come vedi, amico mio, sarà difficile per tutti. E dunque anche tu devi fare la tua parte a casa tua. Devi limitare i nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania, migliorare le condizioni di vita dei palestinesi, e in più in generale fare “visibili passi in avanti” nella direzione del “due popoli-due stati”. Il tutto – capiscimi – “nelle prossime settimane”.

È questa finestra stretta, che ha come orizzonte al più tardi la fine dell’autunno, il vero assillo di Biden: l’azzardo di un presidente di 82 anni che almeno sul fronte internazionale non appare certamente lo “Sleepy Joe” tratteggiato da Donald Trump. Qualcosa inizia già a muoversi anche in superficie. Il 25 settembre, per la prima volta, un ministro israeliano, Harim Katz, è volato a Riyadh per partecipare a una conferenza dell’Onu. Ma la via dell’accordo non sarà una passeggiata, di fronte all’evidenza - per dirla con il portavoce del consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Kirby – che “in accordi questa complessità, tutti dovranno fare concessioni”. Sulla stampa israeliana circola da giorni la previsione di Netanyahu, convinto che sia alle viste “un accordo storico” e che i sauditi andranno avanti anche in cambio di “minime aperture” ai palestinesi. Ma a Gerusalemme c’è diffusa inquietudine per il via libera al nucleare saudita. E soprattutto - riferisce il Jerusalem Post - gli alleati di ultradestra di “Bibi”, tenuto in sella da un governo che è il principale scudo alla sua incriminazione, già avvertono il primo ministro: “Nessuna concessione nella West Bank”.

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