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Il Canada sceglie il liberale Mark Carney come nuovo premier

Già alla guida della Banca Centrale canadese e della Bank of England, il neoeletto primo ministro dovrà gestire il nuovo corso delle relazioni con gli Stati Uniti. Il punto di Stefano Marroni

“Vedi, Dick – disse una volta l’allora premier canadese Pierre Trudeau a Richard Nixon – vivere vicino a voi è in qualche modo come dormire accanto a un elefante. Basta un fremito, un borbottio e… si salta per aria!”. Probabilmente nessuno - nella Casa Bianca del 2025 - è stato in grado di ricordare a Donald Trump la battuta che per cinquant’anni, nel vecchio Gop, ha costituito un prezioso promemoria, nella cauta gestione dei rapporti col grande e amico vicino del Nord: una tela solida, intessuta negli scambi commerciali e sui campi di battaglia, che in poche settimane il quarantasettesimo presidente è riuscito invece a strappare al punto da rovesciare ogni pronostico, e garantire al neo premer liberale Mark Carney – prima ancora che al suo omologo australiano Anthony Albanese - una clamorosa e imprevista vittoria elettorale. Mettendo in mano al “noioso” professore – un economista senza nessuna esperienza politica - la bandiera dell’orgoglio offeso dei canadesi, alla ricerca di una guida “per ritrovare un nostro posto nel mondo oltre l’America”.

Quando alla Casa Bianca sono cominciate la battute sul “cinquantunesimo Stato”, e davanti ai giornalisti Trump ha ribattezzato “governatore” l’allora premier Justin Trudeau, il figlio maggiore del più carismatico leader canadese del XX secolo viaggiava nei sondaggi a venticinque punti meno del leader conservatore Pierre Polievre, politico di razza, eletto ininterrottamente dal 2015 nel “riding” di Carleton, Ontario, la roccaforte moderata alla porte di Ottawa che ospita una delle più importanti università canadesi.

Nel 2022, dopo aver sostenuto le ragioni dei No Vax nelle fasi più difficili della pandemia, Polievre si era esposto nel sostegno alla lotta dei camionisti, che letteralmente assediarono la capitale per protestare contro le restrizioni anti-Covid, e nel 2023 i sondaggi gli accreditavano il 30 per cento dei voti. L’anno dopo, l’approccio populista lo fece trovare in naturale sintonia con il Trump tornato alla Casa Bianca in nome della comune lotta alla cultura woke, del no all’immigrazione, della chiusura della tv pubblica e soprattutto del taglio del welfare generoso che fa del Canada un unicum nel continente americano: un abbraccio che – nonostante la disperata presa di distanze delle ultime due settimane di campagna elettorale – si è alla fine rivelato mortale, costando a Polievre non solo la maggioranza in Parlamento ma persino il suo seggio di Carleton, strappato ai conservatori da un quasi incredulo uomo d’affari in pensione, Bruce Fanjoy.

Nel frattempo - mentre esplodeva la tempesta dei dazi, con Trump ad addossare al Canada anche la responsabilità dell’epidemia da fentanyl - il panorama politico canadese è radicalmente cambiato. Travolto dalla crisi nel suo partito, innescata dalle dimissioni della vicepremier Christia Freeland, Trudeau ne ha lasciato la guida nel momento del massimo calo di consensi. Ma è così che – messi alle strette – i liberali hanno pescato a marzo il più improbabile asso nella manica. Regalando un’ampia vittoria nelle primarie per la leadership a Carney, un economista mai eletto prima ma con alle spalle la guida della Bank of Canada e poi addirittura – per nove anni – della Bank of England.

È toccato a lui, una sorta di “Draghi canadese”, andare al voto anticipato tenendo botta con Trump, che per quasi due mesi è riuscito a non nominare mai, nel chiedere l’unità dei canadesi. Ad infiammare il clima sono più che bastati il presidente americano e la sua squadra, che ha tentato timidamente di correggere il tiro senza riuscire a placare l’ondata di orgoglio nazionale che “The Donald” ha suscitato in tutto il paese. Gli scaffali dei negozi si sono svuotati dei liquori americani, ed “Elbows up”, l’alzare i gomiti per proteggersi negli scontri durissimi dell’hockey su ghiaccio, è diventato la parola d’ordine di gran parte dei canadesi dopo che il 21 febbraio in decine di milioni hanno seguito in tv la finale tra Usa e Canada nel Four Nation a Boston, celebrando fino a notte alta con Trudeau un successo che - un po’ come in Italia-Germania nel ‘70 – si è concretizzato in rimonta, con il 3 a 2 decisivo nel secondo tempo supplementare. L’ultima goccia è stato il post di Trump con cui a urne aperte, il 28 aprile, il tycoon ha chiesto su Truth al “grande popolo del Canada” di votare per essere “il beneamato cinquantunesimo Stato degli Usa, senza tasse, senza dazi, senza confini artificiali. L’America non può più sovvenzionare il Canada con le centinaia di milioni di dollari l’anno che abbiamo speso in passato”.

Poche ore dopo, alle due e mezzo del mattino, con i risultati ormai pressoché definitivi e a un passo dalla maggioranza assoluta, sul filo dell’ironia il nuovo premier non ha potuto che ringraziare anche lui, oltre che i milioni di elettori attratti dal sobrio centrismo di Carney (molto più cauto di Trudeau tanto sulla gestione della spesa pubblica che dei temi più tipicamente woke), inclusa persino una parte dei nazionalisti francofoni del Bloc Quebecois, a cui il neopremier ha chiesto in francese di far parte del “team Canada” in nome dell’essere “maîtres chez nous”, “padroni in casa nostra”.

Ora – passata la sbornia di un successo insperato - per Carney inizia una navigazione impegnativa: tra i nodi di un’economia in crisi e che più di ogni altra – interconnessa com’è a quella americana – è esposta al gelo di un possibile recessione, e una politica estera tutta da inventare, con le relazioni con gli Usa al punto più basso di sempre: con India e Cina per ragioni diverse entrambi ostili, e la difficoltà di imbastire in fretta un’intesa con i partner più disponibili, la Gran Bretagna e l’Unione europea, sfruttando anche la grande vetrina offerta al Canada dall’appuntamento in casa con i grandi del G7 a giugno ad Alberta. Il governo canadese ha subito avviato la politica di aumento del budget della difesa concordata in sede Nato, ma la scommessa vera rimane quella di un’intesa con Trump sulle esportazioni di acciaio e di automobili senza mollare di un centimetro sul nodo della annessione agli Usa.

Non sarà semplice, e si è visto in tutta nettezza durante la prima visita di Carney a Washington. Nemmeno un’ora prima di ricevere il nuovo premier nello Studio Ovale, Trump gli ha mandato a dire su Truth che gli Usa “non hanno bisogno di NIENTE di ciò che i canadesi hanno se non della loro amicizia, che sperabilmente manterremo per sempre. Mentre loro hanno bisogno di TUTTO da parte nostra”.

Nel faccia a faccia, in realtà, i toni si sono fatti molto più concilianti, e il presidente si è persino congratulato con il premier della sua grande vittoria elettorale, glissando su chi ne fosse stato il principale artefice. Poi, a beneficio di telecamera, sono scoccate le scintille: “Come lei ben sa venendo dal mondo immobiliare – ha detto Carney sorridendo – ci sono cose che non potranno mai essere in vendita. Qui, siamo seduti in un posto così. Un altro è Buckingham Palace, dove lei è stato. Ed avendo parlato con i proprietari del Canada nell’arco di una campagna elettorale che è durata mesi, le posso assicurare che non è in vendita, e non lo sarà mai. L’opportunità che c’è, invece, è la nostra partnership. E di fare le cose che possiamo costruire insieme”. Trump non si è scomposto: “Sarà il tempo a dirlo. Io dico sempre: non dire mai mai. Ho visto molte cose che sembravano impossibili, e invece si sono rivelate possibili, e si sono avverate in modo assolutamente amichevole. Poi, certo, bisogna essere in due, per ballare il tango…”.

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