I sondaggi, le scelte dei Democratici e il Midterm 2026
Tra sondaggi e prospettive elettorali verso il Midterm 2026, cosa si muove nella politica americana? Il punto di vista di Stefano Marroni

Frustrati, spaventati, indecisi. Apparentemente travolti dall’attivismo senza freni di Donald Trump. A ormai nove mesi dall’annunciata sconfitta di Kamala Harris, i democratici americani tentano con fatica di riaversi dallo shock di una débâcle che aldilà dei numeri ha svelato la fragilità del loro insediamento persino nelle grandi città, e una drammatica incapacità di capire e parlare con la gente comune: con le componenti essenziali – classe operaia bianca, afroamericani, latinos – della rainbow coalition che non gli aveva voltato le spalle nemmeno negli anni ’80, gli anni di Ronald Reagan e George H. Bush. Divisi sul da farsi e sulle strategie, incapaci di opporsi a quel che secondo Barak Obama - a lungo del tutto silenzioso e molto criticato a mezza bocca dopo la batosta di novembre - è “un lento e progressivo scivolare verso qualcosa che non è in linea con la tradizione della democrazia americana, ma con la realtà delle autocrazie, come l’Ungheria di Orban. E che giorno dopo giorno finisce per apparire la normalità”.
Le politiche della Casa Bianca, e la scelta degli uomini e delle donne a cui Trump ne ha affidato la messa a terra in un susseguirsi convulso di ordini esecutivi – notano molti analisti - non sembrano a prova di bomba. Ma i dem non appaiono mai in grado di sviluppare un’offensiva efficace, in grado di aumentare i loro consensi. I tagli al budget di agenzie e ministeri varati dal DOGE hanno fatto male, i dazi cominciano a farsi sentire sul carrello della spesa, il documento di bilancio voluto da Trump ha contratto il supporto pubblico anche a categorie fragili – i veterani, gli anziani, i pazienti in carico al già fragile sistema sanitario pubblico - che avevano voltato le spalle ai dem proprio pensando che Trump per loro avrebbe fatto di più. E insieme al caos nella gestione della lotta all’immigrazione illegale – il cuore della campagna del tycoon – stanno producendo un lento ma costante calo del consenso degli americani.
Secondo i sondaggi, solo il 53 per cento degli elettori approva oggi l’operato del presidente, con un trend in discesa leggermente più veloce di quello dei predecessori, e peggiore anche di quello dei primi mesi di Biden. Resta uno zoccolo duro di 44 americani su cento che sono con Trump senza se e senza ma. Ma è una realtà in movimento, che nonostante l’impotenza dei dem ha già fatto accendere la luce rossa nello Studio Ovale in vista delle elezioni di Midterm del novembre ’26. Trump non vuol correre il rischio che gli elettori puniscano il Gop per colpire le sue politiche, rischiando di confermare e far vincere una pattuglia di governatori democratici e soprattutto di compromettere – come avvenne nel 2018, durante il suo primo mandato - il controllo totale sul Senato e la Camera dei rappresentanti, che oggi ne condividono – a volte subendole – tutte le scelte. E sta già correndo ai ripari, con una squadra in cui l’ex capo della sua campagna Chris LaCivita e il sondaggista Tony Fabrizio sono diventati - in rapporto quotidiano con la capo dello staff Susie Wiles e il suo vice James Blair - “gli occhi e le orecchie della Casa Bianca” in tutte le realtà in cui si voterà il prossimo anno.
Ai suoi – ha scritto Politico – il presidente ha già fatto sapere che a suo tempo “sarà in campo a tutto gas” per garantire ai candidati repubblicani il sostegno militante del popolo MAGA. Ma già ora sta lavorando da king maker nel selezionare quelli meglio piazzati e scongiurare duelli pericolosi in casa Gop. In Iowa, ad esempio, ha mandato a dire con qualche ruvidezza al popolare Zach Nunn di metter via il sogno di correre per Governatore dello stato, e di difendere invece il suo seggio alla Camera dei rappresentanti. In Michigan ha detto vis-à-vis a Bill Huizenda di preferirgli Mike Rogers nella corsa per un seggio al Senato che potrebbe diventare complicata. E così via a New York, in North Carolina e in Texas, dove la maggioranza repubblicana ad ogni buon conto ha spacchettato i collegi elettorali per garantirsi almeno cinque seggi sicuri in più.
“La Casa Bianca ha il pieno sostegno del Partito democratico nel suo piano di mettere Trump al centro della campagna elettorale”, ha commentato ironicamente la portavoce della Democratic National Commitee Rosemary Boeglin: “Sarà più facile raccontare agli americani che gli stanno togliendo soldi dalle tasche, cibo dalla tavola e cure ospedaliere per garantire massicci guadagni ai miliardari”. Non è detto però che gli eredi di Roosevelt e Kennedy ci riescano, a giudicare dalla difficoltà di rimettere in ordine le proprie file. Per cominciare, non c’è intesa nemmeno su quali siano state le cause della sconfitta di novembre, che nelle analisi ufficiali – per esempio – tiene del tutto in secondo piano il disastro dell’aver nascosto a lungo le reali condizioni di Joe Biden, impedendo una selezione aperta tra i migliori possibili candidati alla presidenza per costringere alla fine Kamala Harris a tentare invano di risalire - in meno di tre mesi - la china della sua scarsa popolarità e dell’impossibilità per un vicepresidente in carica di sganciarsi credibilmente dal profilo delle politiche della Casa Bianca.
Trump per vincere ha scelto con cura i suoi nemici veri o presunti: i media, le élite sulle due coste, le università, il deep state, gli immigrati. E questo gli ha fruttato lo spostamento a destra anche di settori larghi del proletariato urbano “non bianco” spaventato dalla criminalità, dal numero degli homeless nelle strade e dal costo della vita. I democratici invece faticano a spiegare con chi e contro chi intendano riprendere il discorso della lotta alle diseguaglianze. E soprattutto come dismettere l’immagine di partito dello statu quo, di garante del sistema, che gli si è appiccicato addosso: “Va bene l’aborto, vanno bene le politiche di inclusione – spiega la giovane congressman del Nevada Sandra Jauregui - ma non hanno lo stesso peso del costo della vita. Gli elettori hanno tentato di dircelo, ma non li abbiamo ascoltati come dovevamo”.
Nasce anche da qui lo scontro violento innescato dalla vittoria schiacciante di Zohran Mamdani nelle primarie democratiche che ne hanno fatto il primo islamico in corsa per il posto di sindaco di New York. Trentatré anni, dal 2022 rappresentante di Brooklyn nello stato di New York, figlio di genitori indiani-americani ma nato in Africa, è cresciuto nell’ambiente della sinistra radicale newyorchese, tra la fede sciita del padre Mahmood, noto docente di Relazioni Internazionali, e il carisma della madre, la regista Mira Nair, plurinominata agli Oscar e molto acclamata nel ’91 a Venezia per il suo Mississippi Masala, con Denzel Washington. Mamdani si definisce un socialdemocratico, e nella sua corsa è stato sostenuto da personalità di rilievo come il senatore del Vermont Bernie Sanders e la congresswoman del Bronx Alexia Ocasio-Cortez su un programma che – accanto al sostegno all’Intifada e la denuncia del “genocidio” nella Striscia di Gaza – propone tra l’altro l’affitto di case a prezzi accessibili a tutti, l’accesso gratis a mezzi pubblici di New York e la nascita di negozi a prezzo controllato per i generi alimentari. Il tutto, sullo sfondo di una denuncia dai toni trumpiani del ruolo ridondante delle “oligarchie” nella vita della città: “Io lavorerò – ha promesso - per tutti i newyorchesi, nessuno escluso”.
Da assoluto underdog in un campagna che ha visto investire milioni di dollari dai suoi avversari Mamdani - del tutto ignorato dai sondaggi – ha mobilitando giorno dopo giorno gli asiatici, i musulmani e soprattutto i giovani bianchi anche ebrei, millennial e della Gen Z. Col risultato di sfondare a Manhattan e a Brooklin raccogliendo il milione di voti che gli ha consentito di capitalizzare l’insofferenza diffusa per l’establishment democratico di New York: che - con l’appoggio dei Clinton, dei sindacati, delle comunità afroamericane e di un fiume di denaro versato dagli sponsor - si era schierato con l’ex governatore dello stato Andrew Cuomo, sessantasettenne figlio di Mario, carismatico sindaco di New York e una assoluta istituzione del partito democratico, che però da subito era apparso in difficoltà per la cattiva gestione dell’emergenza Covid e poi da una vicenda di molestie sessuali su alcune collaboratrici che lo costrinse alla dimissioni.
La vittoria del giovane professore radicale della Columbia ha gettato benzina non solo sulla corsa a sindaco della più grande metropoli d’America ma sul confronto aperto in casa democratica su come prepararsi alla rivincita nel 2026 e soprattutto nel 2028. Decisamente avversato dai maggiori quotidiani liberal (“E’ un male per New York e per il partito democratico”, ha titolato il Washington Post), Mamdani è subito diventato un bersaglio ovvio per Trump, convinto di poter usare il volto di “questo lunatico comunista” per farne l’immagine di tutto il partito democratico: e pronto – sostiene il New York Times – anche a togliere dalla corsa a sindaco un debole candidato repubblicano per sostenere come indipendente il sindaco democratico uscente, il nero Eric Adams, che ai voti degli afroamericani e al sostegno dei sindacati dei poliziotti potrebbe unire in una corsa da indipendente quello dei moderati spaventati dal socialdemocratico Mamdani.
Su Adams – salvato da un processo per corruzione dall’intervento diretto del Dipartimento di Giustizia - si sta già orientando il sostegno della grande finanza newyorchese e dei grandi immobiliaristi che nelle primarie democratiche avevano sostenuto Cuomo: l’ex governatore – riferisce The Atlantic - vorrebbe anche lui tentare la corsa da indipendente ma la stampa registra da settimane il suo profilarsi come “anatra zoppa” in una corsa tra Mamdani e Adams.
Così, in breve, sulla figura di Mamdani si sta consumando una lacerazione crescente tra i Dem, che è solo in parte – anche se in modo molto rilevante – uno scontro generazionale che vede la rivolta dei giovani contro lo stato maggiore di un partito che - dopo la fiammata di Obama nel 2008 - è saldamente nelle mani della gerontocrazia che ha non per caso coperto il devastante declino di Biden.
La sua tecnica di comunicazione – fondata su un uso competente e innovativo dei social network, oltre che della sua passione per la musica hip hop – ha convinto tutti che le prossime competizioni si svolgeranno su un altro spartito. A Minneapolis, per cominciare, il successo di Mamdani ha trovato una immediata replica nell’affermazione alle primarie democratiche per il sindaco di Omar Fateh, figlio di immigrati somali e membro del Senato del Minnesota che - in uno stato a larga presenza di musulmani – sulla stessa linea di New York ha battuto l’uscente Jacob Frey, un ebreo tra l’altro molto critico con Netanyahu.
La corsa dell’aspirante sindaco di New York è diventato il modello per chi come Ocasio-Cortez e Sanders è convinto che “i capi del partito democratico hanno totalmente perso il polso della realtà di questo paese”, e che c’è bisogno di “leader capaci di parlare chiaro, e dire qualcosa di intelligente su quel che succede oggi in America”. Ma intriga anche il senatore del Connecticut Chris Murphy, una star emergente tra i Dem, convinto che “la nuova destra dà risposte sbagliate a domande giuste sugli eccessi del neoliberalismo”, e attivo sostenitore delle politiche di Biden per rafforzare la legislazione antitrust e le tutele dei consumatori, oltre che delle ingenti risorse pubbliche investite a sostegno delle imprese per la costruzione di infrastrutture per favorire l’occupazione. “Non ci mancava una politica”, ragiona una sondaggista influente come Celinda Lake. “Ci è mancata una persona in grado di comunicarla in maniera convincente ed efficace”.
Per questa strada si arriva al punto di maggior sostanza per i democratici, ora tutti attivissimi nel cavalcare le evidenti difficoltà del tycoon nella gestione del caso Epstein. Che è ovviamente se contro Trump – al netto di una efficiente comunicazione Mamdani-style - anche a livello nazionale possa funzionare la scelta di un profilo più caratterizzato a sinistra, in un paese il cui mantra politico è sempre stato che “si vince dal centro”.
Nella piccola folla di possibili candidati contro Trump nella sfida del 2028 – il governatore del Kentucky Andy Beasher, quello del Minnesota Tim Waltz, l’ex segretario al Trasporti Pete Buttigied, il senatore dell’Arizona Ruben Gallego e forse Kamala Harris dopo la rinuncia a correre per governatrice della California – tutti hanno assistito sgomenti alla disfatta di Cuomo ma nessuno sembra convinto che radicalizzare lo scontro possa dare slancio ai democratici: “Attenti a non offrire a Trump il pretesto per colpirci più duro”, raccomanda il congressman latino Lou Correa, sullo sfondo di un generale ripensamento sulla campagna per definanziare la polizia su cui molti democratici si attestarono dopo l’indignazione per la morte di George Floyd nel 2020.
In California, la protesta del governatore Gavin Newsome e della sindaca di Los Angeles Karen Bass per l’invio di marines e Guardia nazionale per sedare le proteste per i raid dell’ICE contro gli immigranti illegali è stata l’altra faccia di un pugno di ferro contro i violenti che “risponderanno dei danni inferti alla nostra città”, hanno ammonito.
Newsome - un leader per molti versi carismatico su cui non per caso Trump scarica colpi appena può, e che viene sempre indicato come uno dei più forti contendenti in vista di USA 2028 - ha molto annacquato la sua immagine liberal sui temi dell’immigrazione e della gestione degli homeless nelle città, che a San Francisco è diventata un’emergenza. C’è anche lui tra chi segue con interesse la prime mosse di una nuova componente del partito, un caucus di eletti a vari livelli generazionalmente omogeneo e molto critico con la gestione delle ultime fasi di Biden (“Il cover up sulle sue reali condizioni è stato decisivo per minare la fiducia degli elettori nel nostro partito”, assicura la newyorchese Pat Ryan) ma convinto soprattutto che per vincere serva “ampliare la coalizione democratica: servono la pazienza e la tolleranza per costruire un campo molto largo. Servono valori – spiega James Talarico, in pista per correre per un seggio al Senato - ma anche mente aperta. Dobbiamo essere esser pronti a unirci anche con gente che non condivide il 100 per cento delle nostre idee”.
Alla vecchia guardia, il gruppo manda a dire che non si può far finta di niente di fronte a un fenomeno come Mamdani: “Sapete come si perdono le elezioni? Voltando le spalle ai giovani candidati di talento che le vincono”, ammonisce il sindaco di Cincinnati Aftab Pureval. Obiettivo, le Midterm del prossimo anno: “E’ inutile parlare ora di chi candidare alla Casa Bianca”, manda a dire ai suoi colleghi il governatore dell’Illinois JB Pritzker. “Prima, dobbiamo concentrarci su come vincere nel 2026…”.