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Il rinnovato ruolo internazionale dei Paesi del Golfo

Per rafforzare il proprio ruolo all’interno della comunità internazionale, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar sono sempre più protagonisti in dossier complessi e di portata globale. L’analisi di Daniele Ruvinetti

I Paesi del Golfo esprimono ormai quasi quotidianamente la loro volontà di impegnarsi su dossier di caratura internazionale. Una necessità strategica per accrescere il proprio standing, per dimostrarsi in grado di giocare al tavolo dei grandi, per tutelare le proprie agende e priorità.

Stati come Arabia Saudita, Qatar o Emirati Arabi Uniti si stanno da anni dimostrando attivi e proattivi su questioni delicate e articolate, su cui poter misurare la propria capacità di proiezione negli affari globali.

È il caso, per esempio, della recente liberazione di dieci ostaggi catturati dai russi durante l’invasione ucraina, mediata dall’intelligence saudita. Dei prigionieri cinque erano britannici e due americani, a testimoniare che quella che Riad ha definito “un’operazione umanitaria” ha in sé anche un senso politico: un messaggio per Washington e Londra riguardo all’utilità del Regno anche in situazioni complesse – come le trattative per ridare libertà ai prigionieri di guerra.

Mohammed bin Salman, neo primo ministro ed erede al trono saudita, avrebbe lavorato direttamente per ottenere il risultato, dimostrando peraltro che le relazioni che continua a mantenere con la Russia potrebbero avere un’utilità anche per l’Occidente. Contropartita per un atteggiamento sul petrolio che non è proprio conforme alle richieste di Washington e Bruxelles, che chiedono di aumentare le produzioni, mentre Riad, con Mosca, continua a non aumentarle per evitare che il prezzo scivoli troppo in basso. Come dimostrato anche dalla recente riunione Opec Plus, che ha suscitato durissime reazioni da parte americana.

La vicenda della liberazione dimostra come questi Paesi vogliano misurarsi con sfide via via maggiori per poter essere considerati dalla Comunità internazionale qualcosa di più – molto di più – di contenitori di materie prime energetiche. E l’Arabia Saudita guida questo processo d’emancipazione.

Qualcosa di simile ha riguardato il Qatar, che cerca in vari modi una sua dimensione internazionale. Un esempio è il forte impegno profuso da Doha nel mantenere aperto un canale di contatto con i Talebani. La diplomazia qatarina è attualmente il vettore di comunicazione con l’Afghanistan per un’ampia serie di Paesi e ha promosso in precedenza le trattative per conto di Washington.

Anche gli Emirati si muovono: Abu Dhabi ha avviato una profonda rimodulazione delle sue attività internazionali, orientandole verso una politica di interesse geoeconomico, ma non disdegna la possibilità di giocare un ruolo su dossier complessi come, ad esempio, le relazioni con l’Iran. I diplomatici emiratini hanno fatto diversi passi di apertura verso Teheran, un tempo considerato un rivale tout court, e guidano un processo distensivo a cavallo tra il geopolitico e il securitario che interessa chiunque voglia relazionarsi con il Medio Oriente.

In definitiva, anche attraverso impegno e attivismo positivo, questi Paesi si stanno costruendo un proprio ruolo e un rinnovato posto nel mondo. E stanno ottenendo risultati importanti, se si considera come sia l’Unione europea che il Regno Unito stiano cercando di definire il perimetro ampio di nuove partnership strategiche.

Allo stesso tempo, con questi coinvolgimenti, Riad, Doha e Abu Dhabi, tutelano il proprio interesse nazionale, che riguardi il controllo del prezzo dei prodotti energetici (il petrolio su tutti) o la creazione di equilibri securitari finalizzati a salvaguardare le loro proiezioni di crescita. Crescita certamente rafforzata dal valore che il mercato degli idrocarburi ha avuto a seguito dell’invasione russa in Ucraina, ma orientati a spostare investimenti e calcoli verso ambiti futuribili sia dell’economia mondiale che della politica internazionale.

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