Il significato politico e strategico del “Global Combat Air Program”
Quali riflessi e quali conseguenze avrà la sigla dell’accordo GCAP tra Italia, Giappone e Regno Unito? L’analisi di Leonardo Palma
La flotta nipponica che nel maggio 1905 sconfisse la Russia zarista nella battaglia navale di Tsushima era stata costruita in Italia e nel Regno Unito. La Kasuga e la Nisshin, per esempio, due incrociatori corazzati classe Garibaldi, erano stati costruiti dalla Ansaldo di Genova-Sestri nel 1898. Un secolo dopo, questi tre paesi hanno siglato l’accordo GCAP (Global Combat Air Program) per lo sviluppo di un caccia da combattimento di sesta generazione. Il programma dovrebbe portare all’integrazione della piattaforma anglo-italiana “Tempest” con quella giapponese “F-X”.
La dichiarazione comune dei governi di Roma, Londra e Tokyo, rilasciata il 9 dicembre 2022, ha aperto e tracciato un percorso che dovrebbe concludersi nel 2035. Mentre l’Italia e il Regno Unito hanno una certa familiarità nei settori della difesa e dell’aerospazio (programmi Tornado, EFA, PAAMS, etc.), una partnership internazionale con altre potenze per un progetto così rilevante per la difesa nazionale rappresenta una novità per il Giappone. I motivi che avrebbero spinto il Kantei a preferire i due paesi europei agli Stati Uniti deriverebbero da un lato dal rifiuto di Lockheed Martin di offrire ai giapponesi l’accesso al source-code del programma di sviluppo della sesta generazione di aerei da combattimento, dall’altro da una certa complementarità tra interessi, mezzi e obiettivi con Roma e Londra. Nazioni marittime e insulari (o peninsulari, nel caso italiano) che per garantirsi la superiorità aerea nei rispettivi spazi navali (Mari del Nord, Mediterraneo, Mar Cinese Meridionale, sempre più oggetto di competizione politico-militare ed economica) avranno bisogno di un aereo stealth multiruolo parte di un ecosistema tecnologico che integri sistemi e sensori, intelligenza artificiale, una architettura dinamicamente riconfigurabile, materiali avanzati, protezione cyber, “wearable cockpit”, ma anche tecnologie ipersoniche, “manned-unmanned teaming” (MUM-T) e armi laser ad energia diretta. L’accordo, inoltre, garantirebbe le medesime tempistiche dei programmi originali, parità di stato tra i tre partners, contenimento dei costi a parità di efficienza e qualità del prodotto, e un incremento addizionale delle capacità produttive a servizio degli export nazionali.
L’importanza del GCAP, tuttavia, non si esaurisce nel suo valore industriale. Per il Giappone, questo accordo riflette il mutamento in atto rispetto alle politiche di sicurezza nazionali. Secondo i pianificatori giapponesi, l’attuale configurazione del sistema internazionale si va spostando verso un multipolarismo competitivo sulla base delle logiche della politica di potenza; la conseguenza è che il confine tra offesa e difesa si è assottigliato e il centro di gravità delle politiche di difesa degli Stati è necessariamente cambiato. Il governo Kishida ha così introdotto il concetto di “operazioni di deterrenza flessibile” all’interno di uno sforzo collettivo di sicurezza di partners e alleati che sposti il baricentro difensivo del paese più vicino alla zona di prossimità da cui originano le minacce. Per questo il GCAP assume per Tokyo una rilevanza strategica che trascende la logica del semplice aggiornamento e ammodernamento della flotta aerea, rappresentando la condizione tecnologica primaria per la propria deterrenza. Parimenti, secondo il primo ministro inglese Rishi Sunak, questa partnership internazionale dimostrerebbe come la sicurezza dell’area euroatlantica e di quella indopacifica siano indivisibili. Il GCAP possiede dunque un potenziale valore strategico per i tre paesi partner che va ben oltre i vantaggi delle specifiche capacità militari di cui potrà dotarli il programma nel prossimo futuro. Da questo punto di vista, esso è il risultato di una più grande trasformazione messa in moto dall’accordo AUKUS (Australia, Regno Unito, Stati Uniti) del 2021 per fornire a Canberra una flotta di sottomarini nucleari. Quell’accordo ha infatti elevato intese industriali per lo sviluppo di tecnologie avanzate a strumenti per la ricerca e l’ottenimento di vantaggi strategici nazionali, prefigurando l’adozione da parte degli Stati di quello che si potrebbe definire un “approccio mini-laterale”: piccole partnership, all’interno di un quadro definito di alleanze, per sviluppare specifiche capacità. Come AUKUS, infatti, anche l’accordo GCAP è un acceleratore di tecnologie, un impegno a sviluppare e conseguire congiuntamente capacità critiche per l’industria e la sicurezza nazionale. Per questo motivo, difficilmente il minilateralismo tecnologico può essere definito nei termini riduttivi di un espediente per ottenere giocattoli altrimenti troppo costosi per i singoli paesi. Il GCAP è un accordo capace di generare effetti a cascata e costruire vantaggi strategici nazionali in risposta alle esigenze di capacità derivanti dall’attuale era della competizione tra Stati. Viepiù, i governi di Roma, Londra e Tokyo convergono sulla necessità di rafforzare il proprio ruolo all’interno del sistema di alleanze occidentale a guida americana e sono altresì guidati dal desiderio di mantenere o estendere la propria influenza internazionale attraverso l’eccellenza scientifica e tecnologica nelle applicazioni di difesa. Inglesi e giapponesi, in particolare, ambiscono ad assumere una leadership riconosciuta nella gestione di crisi regionali e nell’affrontare sfide globali per integrare il ruolo degli Stati Uniti. Del resto, proprio perché la competizione tra Stati Uniti e Cina riguarda solo in subordine il contenimento dell’espansione militare cinese in Asia e più direttamente il controllo di tecnologie critiche, il successo del GCAP proietterebbe Londra, Tokyo e Roma sulla linea del fronte, acquisendo un peso maggiore anche nei rapporti interalleati. Maggior peso e rappresentanza potrebbe permettere altresì a questi tre paesi di poter dire la loro nel modo in cui vengono gestite le tensioni tra Washington e Pechino.
Per l’Italia, nello specifico, la firma di questo accordo solleva nondimeno numerose questioni, molte delle quali dipendono dal modo e dalle motivazioni con cui si è pervenuti allo stesso. Se infatti la logica dell’aggiornamento ha premuto sulla riflessione strategica, significa che ben presto il governo italiano dovrà affrontare la portata politica del GCAP. L’accordo produce infatti due conseguenze: la prima, è quella di agganciare l’Italia all’Indo-Pacifico riportandola forzatamente verso un’area finora delegata essenzialmente all’azione esterna dell’Unione europea; la seconda, è la brusca frenata che questo accordo impone all’integrazione europea nel settore della difesa, dal momento che Francia, Germania e Spagna avrebbero deciso di proseguire con lo sviluppo di un altro programma, il FCAS (Future Combat Air System). Sebbene Italia, Germania, Francia e Spagna siano partners industriali in diversi progetti europei (EPC, FREMM, PPA, LSS, Eurodrone), nessuno di essi ha l’importanza strategica del Tempest e del FCAS. Quest’ultimi rappresentano i più importanti programmi di sviluppo tecnologico per la difesa e l’aerospazio dei prossimi trent’anni ma i “quattro grandi” (Germania, Regno Unito, Francia, Italia) non sono riusciti a pervenire ad intesa europea alcuna. Forse è anche per questo motivo che Roma e Londra, attraverso le dichiarazioni rispettivamente del ministro della Difesa e del primo ministro, hanno lasciato la porta del GCAP aperta, dimostrando di non intendere quell’accordo come un patto a tre esclusivo. Non meno importante, tuttavia, è il problema dell’Indo-Pacifico e dell’Asia. A differenza del Regno Unito, ma anche della Germania e della Francia, l’Italia non ha mai chiaramente definito una propria politica asiatica, indopacifica o nei confronti della Cina popolare. Gli stessi rapporti con il Giappone, sebbene tra i più solidi e antichi tra quelli mantenuti dall’Italia al di là del Golfo Persico, non hanno ricevuto l’approfondimento e il salto in avanti di cui pure sarebbero meritevoli vista la complementarità tra i due paesi in termini di sfide, obiettivi e opportunità bilaterali. Parimenti, sebbene esistano diversi documenti redatti dallo Stato maggiore della Difesa, dal ministro della Difesa o dai singoli capi di Stato maggiore di Forza Armata, il governo italiano non ha provveduto ad elaborare un concetto strategico e di sicurezza nazionale rispetto all’attuale configurazione del sistema internazionale. Da questo punto di vista, una evoluzione del GCAP in senso maggiormente politico come un patto di sicurezza a tre rafforzerebbe ulteriormente l’intesa e il suo valore strategico, sia agli occhi dei principali competitor che degli alleati, ma significherebbe rendere l’adozione di una strategia italiana per l’Indo-Pacifico (come parte di un più ampio concetto strategico nazionale) non più rimandabile.
Tutto ciò conduce d’altronde a una importante riflessione rispetto al perimetro dell’azione italiana nel mondo, se si voglia cioè continuare ad aderire alla “dottrina Martini” (dal nome dell’ammiraglio Fulvio Martini, direttore del SISMI dal 1984 a 1991) secondo cui l’Italia, a causa della scarsità di mezzi a disposizione, non dovrebbe estendere ulteriormente la propria area di competenza oltre quelli che sono i confini del “Mediterraneo allargato” (nella definizione di Martini: Balcani occidentali, Nord Africa, Medio Oriente fino al Golfo Persico, fascia del Mar Rosso fino alla Somalia), oppure se sia possibile ipotizzare finalmente una politica italiana globale. Non certamente una “Global Italy” (che anche nel caso britannico stenta a decollare), piuttosto una “Rete Italia” che sottenda ad un approccio più sofisticato e meno scontato di proiezione della propria influenza all’estero. Quale che sia la risposta che il governo di Roma potrebbe dare rispetto a tale questione, il GCAP con Regno Unito e Giappone potrebbe trasformarsi in una carta decisiva che richiederà nondimeno la massima attenzione e consequenzialità sia sul piano industriale degli investimenti sia sul piano politico. Per un paese con un grande potenziale mercantile e scientifico-tecnologico come l’Italia, restare fuori dalla corsa all’aerospazio e al controllo delle filiere tecnologiche più strategiche significherebbe ripetere l’errore della dinastia Ming che, tra il 1470 e il 1529, radiò la propria flotta isolando così la Cina dai commerci marittimi e dalle esplorazioni mondiali per i secoli successivi.