La crisi tra Thailandia e Cambogia
Il Sud-est asiatico torna al centro delle tensioni internazionali. Tra luglio e agosto 2025, una nuova crisi armata ha coinvolto Thailandia e Cambogia, riaccendendo una disputa secolare mai del tutto sopita.

Nella notte tra il 23 e il 24 luglio 2025, le tensioni di lunga data tra Thailandia e Cambogia sono degenerate in un violento scontro a fuoco lungo il confine conteso – nell’area in cui sorge l’antico tempio indù di Prasat Ta Muen Thom – tra la provincia thailandese di Surin e la provincia cambogiana di Oddar Meanchey. Almeno quattro province thailandesi sono state raggiunte da razzi cambogiani, spingendo Bangkok a dichiarare lo stato di emergenza locale. In risposta, l’aviazione thailandese ha condotto raid su obiettivi militari cambogiani. Le accuse reciproche sull’origine delle ostilità si sono moltiplicate: Phnom Penh ha sostenuto come le proprie truppe abbiano risposto ad un’aggressione nei pressi del tempio di Ta Muen Thom, mentre Bangkok ha denunciato bombardamenti indiscriminati e l’impiego di droni sul proprio territorio. L’ex premier cambogiano Hun Sen ha accusato pubblicamente la Thailandia di aver bombardato due province cambogiane, giustificando così l’intervento armato.
Il 28 luglio, grazie alla mediazione della Malesia – presidente di turno dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN) – degli Stati Uniti e della Cina, i leader dei due paesi belligeranti hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco, entrato in vigore dalla mezzanotte dello stesso giorno. Dal 4 al 7 agosto si è poi tenuta a Kuala Lumpur la riunione del Cambodia-Thailand General Border Committee (GBC). Ospitato dalla Malesia, all’incontro hanno partecipato i vertici politici e militari dei due Paesi oltre a rappresentanti di Stati Uniti e Cina in qualità di osservatori. Il documento conclusivo del vertice oltre a rimarcare l’impegno a rispettare il cessate il fuoco, stabilisce la creazione di un Interim Observer Team (IOT), formato da delegati ASEAN, incaricato di monitorare la tregua in entrambi i Paesi, oltre che l’impegno a portare avanti i negoziati nell’arco di un mese.
Le origini del conflitto sono da ricercare nella complessa eredità coloniale e nelle dispute territoriali sorte in seguito alla spartizione dell’area tra l’Indocina francese (comprendente oggi Cambogia, Vietnam e Laos) e il Siam (odierna Thailandia). Tale spartizione fu il risultato di una lunga stagione di negoziazioni e imposizioni coloniali che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, trasformarono radicalmente gli assetti geopolitici della penisola indocinese. Tra il 1904 e il 1907, Francia e Siam tracciarono i confini mediante una serie di trattati – noti come “trattati franco-siamesi” – spesso disallineati rispetto alla reale conformazione geografica, culturale e amministrativa della regione. Questo approccio, tipico delle delimitazioni coloniali, ha generato profonde ambiguità territoriali, in particolare lungo la catena montuosa dei Dângrêk, che oggi segna il confine naturale tra Thailandia e Cambogia.
Proprio in quest’area sorgono due tra i più rilevanti templi khmer di epoca medievale: Preah Vihear e Prasat Ta Muen Thom. Entrambi i siti, di straordinario valore storico e simbolico, rappresentano non solo un patrimonio culturale condiviso, ma anche un punto nevralgico nelle rivendicazioni nazionali di Cambogia e Thailandia. Le dispute attorno a questi templi hanno assunto negli anni una forte valenza identitaria, diventando terreno di confronto tra istanze nazionaliste, interessi militari e ambiguità legali.
Nel 1962, dopo un lungo contenzioso, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) assegnò formalmente alla Cambogia il tempio di Preah Vihear, sostenendo che, pur essendo geograficamente accessibile solo dal lato thailandese, il sito ricadeva in territorio cambogiano secondo le mappe ufficiali francesi utilizzate all’epoca dei trattati. Tuttavia, la sentenza non si pronunciò sull’area circostante al tempio, lasciando così irrisolte le questioni relative alla sua zona buffer e ad altri luoghi di culto vicini, tra cui Prasat Ta Muen Thom. Quest’ultimo, pur non menzionato nella decisione del 1962, è rimasto da allora oggetto di crescente contesa, alimentata dalla presenza militare e dalla costruzione di infrastrutture da entrambe le parti.
L’assenza di una delimitazione chiara e condivisa ha fatto si che la questione di riaffiorasse ciclicamente nel corso dei decenni, soprattutto in momenti di instabilità politica interna o di tensione tra i due Paesi. Questo è anche favorito dal fatto che attualmente la Thailandia non riconosce la giurisdizione vincolante della CIG, limitando di fatto la possibilità di risoluzioni legali durature. Tra il 2008 e il 2011, nuovi scontri armati interessarono l’area di Preah Vihear, culminando in una nuova pronuncia della Corte nel 2013, che chiarì ulteriormente la posizione cambogiana, riconoscendo al Paese anche la sovranità sull’area adiacente al tempio.
Nonostante la pronuncia del 2013 abbia contribuito a rafforzare le rivendicazioni territoriali della Cambogia, la mancata definizione dei confini nel settore di Prasat Ta Muen Thom e l’ambiguità dei trattati coloniali continuano a rappresentare un nodo irrisolto nelle relazioni bilaterali. La coesistenza di narrative nazionali divergenti – spesso strumentalizzate politicamente – e l’assenza di un meccanismo condiviso per la gestione delle dispute di confine rendono l’intera zona vulnerabile a nuove escalation.
La questione si è poi riaccesa nel 2025 con un primo scontro armato verificatosi il 28 maggio nella zona del “Triangolo di Smeraldo”, al confine tra Cambogia, Laos e Thailandia. L’incidente ha causato la morte di un soldato cambogiano e segnato l’inizio della crisi. Le due capitali si sono immediatamente accusate a vicenda della responsabilità dell’episodio, rafforzando la presenza militare lungo le aree contese. È in quel momento che la crisi ha assunto un carattere potenzialmente destabilizzante per l’intera regione. A giugno 2025, si è assistito a una rapida escalation diplomatica. Phnom Penh ha annunciato misure drastiche contro la Thailandia, tra cui la sospensione delle importazioni di carburante, prodotti agricoli, il blocco dell’utilizzo di infrastrutture digitali e il divieto di diffusione di contenuti thailandesi nei media nazionali. Dal canto suo, Bangkok ha imposto nuove restrizioni ai transiti di frontiera e minacciato interruzioni della rete elettrica e internet alle città cambogiane limitrofe. Il tentativo di mediazione tramite un incontro a Phnom Penh il 14 giugno si è concluso senza risultati, aggravando ulteriormente la frattura diplomatica.
Il clima si è fatto ancora più teso a fine giugno con l’emergere del cosiddetto “caso Paetongtarn”. Al centro della vicenda vi è la pubblicazione, da parte di Phnom Penh, di una telefonata registrata il 15 giugno tra la prima ministra thailandese Paetongtarn Shinawatra e l’ex premier cambogiano Hun Sen. Nella conversazione, la leader thailandese esprimeva critiche nei confronti dell’esercito del proprio Paese, circostanza che ha portato alla sospensione da parte della Corte costituzionale di Paetongtarn dall’incarico il 1º luglio. Al suo posto è subentrato il vicepremier Phumtham Wechayachai, con funzioni ad interim e poteri fortemente limitati in un momento in cui la situazione con la Cambogia richiedeva massima coesione istituzionale.
In questo contesto, di fatto, già compromesso, la notte tra il 23 e il 24 luglio ha rappresentato un punto di rottura definitivo. L’assenza di una leadership forte in Thailandia e il susseguirsi di provocazioni militari hanno trasformato una crisi bilaterale in un confronto aperto, con gravi implicazioni per la stabilità regionale. I bombardamenti e gli scontri a fuoco di luglio hanno registrato più di 40 morti e decine di feriti, rendendo inoltre necessaria l’evacuazione preventiva di circa 300.000 persone al confine tra i due Paesi.
La crisi di luglio tra Cambogia e Thailandia ha anche implicazioni significative per la stabilità del Sud-est asiatico. Un conflitto aperto tra due membri dell’ASEAN ha messo in luce la fragilità degli equilibri regionali e la difficoltà dell’organizzazione nel gestire le tensioni tra Stati membri. L’ASEAN, vincolata dal principio di non interferenza, ha mostrato i propri limiti strutturali – come già accaduto nel caso del Myanmar – e solo grazie alla rapida mediazione della Malesia, con il sostegno di attori esterni come gli Stati Uniti, è stato possibile evitare un’escalation più ampia.
La breve guerra ha anche evidenziato l’intreccio tra dinamiche locali e logiche globali. La Cambogia, stretta alleata della Cina, e la Thailandia, tradizionale partner degli Stati Uniti ma oggi più ambigua nei suoi orientamenti, rivestono entrambe un ruolo strategico nell’Indo-Pacifico. L’insolita convergenza tra Washington e Pechino nei negoziati di pace riflette l’interesse condiviso delle grandi potenze nel mantenere la stabilità della regione, almeno nel breve termine.
In conclusione, gli scontri di luglio tra Thailandia e Cambogia rappresentano l’ennesimo capitolo di una rivalità storica, più volte degenerata in violenza armata, che continua a complicare la ricerca di equilibrio in un quadrante instabile come quello del Sud-est asiatico. In questo contesto, la tregua raggiunta ed i successivi accordi di agosto sono solo un primo passo verso la distensione. Sarà infatti necessario vedere come evolverà la situazione e soprattutto se l’ASEAN sarà in grado di garantire un effettivo processo di distensione.