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La Bosnia ed Erzegovina in cerca di una ridefinizione

Le questioni irrisolte nel quadro post-elettorale della Bosnia ed Erzegovina. Il punto di Antonio Stango

Il nuovo quadro post-elettorale

Con una partecipazione al voto di solo il 50,41 per cento dei circa 3,3 milioni di aventi diritto, chiamati ad orientarsi fra 72 partiti, 38 coalizioni e 17 candidati indipendenti, il 2 ottobre la Bosnia ed Erzegovina ha eletto i componenti della presidenza statale tripartita (in rappresentanza dei gruppi etnici bosgnacco, serbo e croato), i presidenti delle entità che compongono lo Stato (Federazione di Bosnia ed Erzegovina e Republika Srpska), i membri della Camera dei Rappresentanti statale e di quelle delle due entità, nonché i membri delle assemblee cantonali e del distretto autonomo di Brčko. Nell’apparente riconferma della situazione politica generale, gli elementi di novità più importanti sono probabilmente un calo dell’influenza del separatista serbo Milorad Dodik, a capo fin dal 1996 dell’Unione dei Socialisti Democratici Indipendenti (Savez Nezavisnih Socijaldemokrata – SNSD) e membro uscente della presidenza tripartita, e il fatto che appena chiusi i seggi l'Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina della comunità internazionale per l’attuazione degli Accordi di Dayton, Christian Schmidt, ha annunciato importanti modifiche alla legge elettorale avvalendosi della massima estensione dei propri poteri. Di rilievo, inoltre, l’elezione alla carica di rappresentante bosgnacco della presidenza tripartita del candidato dell'opposizione Denis Bećirović, del Partito Social-Democratico (SDP): è stato così sconfitto Bakir Izetbegović, il cui nazionalista Partito di Azione Democratica (Stranka Demokratske Akcije, SDA), fondato dal padre Alija, è stato quasi sempre al potere dal 1996 nonostante le accuse di corruzione e le divisioni interne.

Relativamente positiva la valutazione della correttezza delle elezioni da parte di un grande numero di osservatori qualificati, sia di organizzazioni internazionali che di ONG locali: pur permanendo problemi diffusi, è risultato chiaro un miglioramento rispetto alle elezioni precedenti. Secondo la missione di monitoraggio congiunta dell’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell’OSCE (ODIHR), del Parlamento Europeo e delle Assemblee Parlamentari dell'OSCE, del Consiglio d'Europa e della NATO, la campagna si è svolta complessivamente in modo regolare, ma con episodi di pressione sui dipendenti del settore pubblico; il giorno delle elezioni sono stati registrati alcuni incidenti presso i seggi elettorali e la segretezza del voto è stata spesso compromessa; sono poi state constatate irregolarità procedurali nel conteggio in numerose sedi. La coalizione di osservatori della società civile Pod lupom (“Sotto esame”) ha invece riferito di tentativi di influenzare e minacciare gli elettori e di attacchi a membri dei seggi, ma ha anche rilevato "evidenti miglioramenti” rispetto al passato.

Solo nella Republika Srpska, in seguito alle accuse da parte di diversi partiti di opposizione di brogli che sarebbero stati organizzati dal leader separatista Dodik, la Commissione Elettorale Centrale ha ordinato un riconteggio di tutte le schede per la presidenza dell’entità. Dei 31 candidati, Dodik secondo i primi risultati ufficiali avrebbe vinto con il 48,14% dei voti, mentre Jelena Trivić del Partito del Progresso Democratico (Partija demokratskog progresa, PDP) – peraltro negazionista come Dodik del genocidio di Srebrenica del 1995 – si sarebbe fermata al 43,37%.

La questione del separatismo serbo e i rapporti con la Russia

Dopo essere stato nella Republika Srpska primo ministro per due mandati e poi presidente dal 2010 al 2018, Milorad Dodik è stato negli ultimi quattro anni il membro serbo della presidenza tripartita, dove si sarebbe impegnato per indebolire le istituzioni statali, negare la legittimità dello Stato unitario nato dagli Accordi di Dayton del gennaio 1995 e minacciare la secessione serbo-bosniaca; è sottoposto per questo e per presunta corruzione a sanzioni statunitensi e britanniche. Nel tornare a candidarsi alla presidenza dell’entità serba, ha inteso scambiare la carica con la presidente uscente Željka Cvijanović, a lui molto vicina. Anche la Cvijanović, nell’aprile di quest’anno, è stata colpita da sanzioni da parte del Regno Unito, il cui governo ha accusato lei e Dodik di avere tentato di minare la legittimità della Bosnia ed Erzegovina, di spingere verso una "secessione di fatto" in violazione della Costituzione dello Stato e di minacciare, “incoraggiati” dal presidente russo Vladimir Putin, la stabilità e la sicurezza nei Balcani occidentali, usando "una retorica divisiva, pericolosa e nazionalista” e “incitando all'odio etnico”.

Željka Cvijanović è stata ora eletta membro della presidenza tripartita con oltre 240.000 voti, mentre il suo principale avversario, Mirko Šarović del Partito Democratico Serbo (fondato nel 1990 da Radovan Karadžić), ne ha ricevuti circa 160.000.

L'influenza del Cremlino sulla Republika Srpska è piuttosto evidente. Dodik ha incontrato Putin diverse volte, le ultime due dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina: al Forum Economico di San Pietroburgo in giugno e al Cremlino il 20 settembre – solo 12 giorni prima delle elezioni, per mostrare al proprio elettorato di averne il sostegno. In questa occasione, Putin ha detto di sperare che le elezioni rafforzassero “la posizione delle forze patriottiche nel Paese”. Da parte sua, Dodik ha operato per impedire che la Bosnia-Erzegovina si unisse alle sanzioni contro la Federazione Russa, e in un’intervista alla TASS del 19 settembre ha definito l’invasione “operazione speciale”, usando l’espressione ufficiale di Mosca.

In aprile la Federazione Russa ha annunciato il proprio ritiro dal Consiglio per l’Attuazione della Pace (Peace Implementation Council – PIC), che supervisiona l'Ufficio dell'Alto Rappresentante; e il prossimo novembre, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, potrebbe votare contro l’estensione annuale della missione internazionale di mantenimento della pace ALTHEA, guidata dall’UE su mandato dell’ONU dal 2004.

Una riforma elettorale che lascia problemi aperti

Nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina, cui spettano sia il membro bosgnacco che quello croato della presidenza tripartita statale, come membro croato è stato eletto per la quarta volta Željko Komšić, del Partito Social-Democratico (SDP). L’Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica – HDZ), che aveva candidato l’avvocata e deputata statale Borjana Krišto, sostiene però da anni che ad eleggere Komšić siano in gran parte cittadini bosgnacchi, dato che finora nelle Federazione non ci sono liste di elettori separate per la comunità croata e la maggioranza bosgnacca può quindi di fatto essere determinante anche in questa scelta. Secondo il censimento del 2013, nell’entità i croati costituiscono il 22,4% della popolazione, mentre il 70,4% sono bosgnacchi.

Lo stesso problema di rappresentanza della comunità croata è stato denunciato più volte rispetto alla Camera dei Popoli della Federazione (che elegge il presidente dell'entità e due vicepresidenti e che può porre il veto alle mozioni approvate dall'Assemblea Parlamentare, ovvero la Camera bassa). Finora era composta da 58 delegati scelti da 10 assemblee cantonali; ciascuno dei tre principali gruppi etnici del Paese otteneva 17 seggi e 7 seggi aggiuntivi erano assegnati ad “altri” – cioè membri di altre minoranze o cittadini che non si identificano con nessun gruppo etnico.

La riforma della Costituzione e di alcune leggi elettorali dell’entità annunciata il 2 ottobre dall’Alto Rappresentante Schmidt soddisfa in parte le richieste dell'HZD. I delegati alla Camera dei Popoli della Federazione sono stati aumentati da 58 a 80: 23 (invece di 17) per ciascuno dei gruppi etnici principali e 11 (invece di 7) per gli “altri”. Questo, fra l’altro, consentirà agli “altri” di selezionare un rappresentante per ogni cantone. Altri emendamenti imposti dall’Alto Rappresentante riguardano le procedure per la formazione degli organi esecutivi, la limitazione del potere delle diverse componenti etniche di bloccare le istituzioni della Federazione (come ha fatto nella scorsa legislatura l’HZD) e la restrizione a questioni specifiche della facoltà della Corte Costituzionale dell’entità di porre il veto ad atti legislativi ove ritenga che ledano un interesse nazionale vitale.

Contestato da più parti come ispirato dal governo di Zagabria e come illegittimo, il provvedimento dell’Alto Rappresentante lascia ad ogni modo problemi irrisolti. Uno di questi è il fatto che la rappresentanza proporzionale dei “popoli costitutivi” della Federazione è contraria al principio democratico “una persona – un voto” e che, conseguentemente, i cittadini che non si identificano in uno di quei tre gruppi etnici non possono essere eletti alla presidenza anche se teoricamente ne avrebbero il diritto. Si tratta di una violazione dei diritti civili più volte evidenziata anche dalla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, ma finora non si è riusciti a bilanciare la necessità di superare questo limite con le pressioni dei dirigenti dei partiti su base etnica per mantenerlo. Un'altra violazione dei diritti su cui si è pronunciata la Corte di Strasburgo riguarda il fatto che il voto per il membro serbo della presidenza tripartita può essere espresso solo dai residenti nella Republika Srpska e quello per i membri bosgnacco e croato solo dai residenti nella Federazione, con ciò impedendo di fatto l’esercizio del diritto di voto ai membri di un gruppo etnico che non risiedano nell’entità di cui il gruppo è costitutivo. Tuttavia, nessuna delle sentenze della Corte in materia ha trovato finora attuazione.

Mentre i membri della presidenza tripartita non hanno un potere esecutivo all’interno delle entità di appartenenza, il loro ruolo può essere importante nel definire la politica estera, anche rispetto al superamento o all’aumento degli ostacoli nel percorso che potrebbe portare all’ingresso della Bosnia ed Erzegovina nell’UE e nella NATO.

Concentrati nell’affermazione di identità etniche, i partiti politici di entrambe le entità sembrano avere finora trascurato che è l’intero Paese che dovrà superare una situazione economica e sociale che è probabilmente la causa principale della mancata partecipazione al voto di circa metà dell’elettorato: un'economia stagnante peggiorata con la pandemia e fortemente dipendente dal settore pubblico, un tasso di disoccupazione fra i giovani fino a 25 anni del 37 per cento, l’emigrazione di circa 400.000 persone solo negli ultimi 8 anni e un livello di corruzione che, secondo il Corruption Perceptions Index di Transparency International, è tra i più alti in Europa.

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