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La mediazione della Turchia nel conflitto russo-ucraino

Russia e Ucraina hanno firmato ad Istanbul un accordo per la creazione di un “corridoio del grano”. Cosa spinge la Turchia a fare da mediatore? L’analisi di Daniele Ruvinetti

Dopo mesi di stallo nei negoziati, lo scorso 22 luglio, Russia e Ucraina hanno firmato a Istanbul — grazie alla mediazione turca — un accordo per creare un corridoio nel Mar Nero per l’esportazione di prodotti alimentari, soprattutto grano.

Nella complessa crisi scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, la Turchia ha fin da subito cercato di muoversi come mediatore. Coinvolta nella Nato, di cui è parte integrante ed Alleato di rilevanza strategica, tanto quanto nelle relazioni con Mosca (si veda la recente riunione del Formato di Astana), Ankara ha cercato i propri spazi, sia per necessità che per interesse.

Avere la possibilità di proiettare la propria influenza internazionale su un dossier di così alto valore globale è un’occasione per Recep Tayyip Erdogan (che tra un anno dovrà ripresentarsi alle urne). Lo spazio per un negoziato sul conflitto è ridottissimo; tuttavia, la risoluzione di problematiche puntuali ma dal grande valore, come quella del grano, è un successo diplomatico che la Turchia può rivendicare.

La questione la coinvolge direttamente, e coinvolge una parte di mondo in cui Ankara esercita la propria influenza internazionale. Per esempio l’Africa: sia i Paesi della parte settentrionale del continente, sia quelli della regione centrale, o del Corno, sono già pesantemente colpiti dagli effetti dell’inflazione alimentare scaturita dal conflitto russo-ucraino. Erdogan sa che interpretare quel ruolo di mediatore è utile anche in relazione ai rapporti con questi stati.

La Turchia può far pesare un fattore geopolitico: le esportazioni di grano ucraino che partiranno da Odessa, Yuznhy, Chornomorsk, devono passare dal Mar Nero, e dunque dal Bosforo, porta turca verso il Mediterraneo. Forte anche di questo, e del controllo di tutta la porzione meridionale del bacino, Erdogan ha giocato le sue carte.

Per Europa e Stati Uniti, la Russia sta usando la crisi del grano come arma, e con questo tiene in ostaggio un mercato che influenza la stretta quotidianità di milioni di persone in Paesi particolarmente sensibili. Sono 47 milioni quelli che, secondo le Nazioni Unite, si trovano in condizioni di fame acuta a causa del conflitto; mentre viene valutato in termini di mesi il tempo necessario per ritrovare un flusso di approvvigionamento simile a quello pre-bellico.

Mosca respinge le accuse e addossa la responsabilità dell’inflazione sui beni alimentari alle sanzioni occidentali, trovando aggancio nell’anti-occidentalismo che permea alcuni ambienti nei Paesi africani.

Qui Ankara cerca gli spazi per la propria “narrativa”, costruendosi un ruolo di primo piano come broker internazionale. “Se lo si tratta come un paria, come può reagire Putin?”, ha recentemente detto Erdogan anche in previsione del prossimo incontro con il presidente russo, il 5 agosto. Ancora: “Non consideriamo nessuno un nemico. Li vediamo entrambi come amici e questo porta a un approccio molto sincero da entrambe le parti”. Una posizione chiara quella del turco, attorno alla quale ha potuto costruire l’accordo approvato ad Istanbul per riaprire l’esportazione di grano dai porti dell’Ucraina.

Sul piatto, Erdogan mette anche altri interessi. Raggiungere una mediazione complicata sul grano, che nessuno avrebbe potuto trovare né a Bruxelles né a Washington, conferisce un vantaggio ad Ankara su dossier come l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato – partita ancora aperta – o le attività contro i curdi al nord della Siria.

La Turchia ha trascorso gran parte dell’ultimo decennio cercando di espandere la propria influenza e di rimodellare il Medio Oriente a proprio piacimento, creando un’importante linea di demarcazione tra se stessa e i suoi rivali. Ora le dinamiche di distensione innescate all’interno del Mediterraneo hanno portato Erdogan su posizioni più aperte e transigenti.

Dalla metà del 2021, la Turchia ha cercato di normalizzare le sue relazioni con i Paesi mediorientali, a cominciare da Emirati e Arabia Saudita, e quelli mediterranei come Egitto e Israele. Questo cambiamento è stato determinato anche dalla politica interna turca, oltre che dall’emergere di un Medio Oriente multipolare e dall’intensificarsi della competizione geopolitica.

Erdogan ha una complessa partita politica da giocare in casa, con un’economia in deterioramento e l’opposizione in crescita nei sondaggi. La sopravvivenza del suo ciclo presidenziale dipenderà anche dall’impegno profuso nel trovare un equilibrio tra le grandi potenze.

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