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La Russia e il conflitto a Gaza

La posizione della Russia di Putin nel nuovo contesto internazionale e nel conflitto in Medioriente. I potenziali riflessi sul conflitto in Ucraina. L’analisi di Giorgio Cella

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Ad oltre un mese e mezzo di guerra ad alta intensità, la guerra tra Israele e Hamas va ad aggiungersi all’altro devastante teatro conflittuale russo-ucraino che, dopo quasi due anni, non vede all’orizzonte alcuna realistica exit strategy. Due grandi archi di crisi dalle traiettorie future incalcolabili, sullo sfondo di un sistema internazionale quasi anarchico e altamente frammentato. Un sistema chiaramente retto dal duopolio gestionale sino-americano, in crescente competizione e ad un tempo in un dialogo imprescindibile, come implicitamente riaffermato dall’incontro del 15 novembre a San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping. In tale contesto la Russia, potenza in declino rispetto al suo decennale ruolo nella Guerra Fredda ma ancora rilevante in alcune dimensioni globali, si trova in una fase di riposizionamento strategico. Nella storica oscillazione della Russia tra Occidente e Asia, la sempre più forte integrazione eurasiatica di Mosca seguita alla crisi ucraina del 2014, significa sia un’attenzione particolare ai rapporti con la Cina, che a quelli col mondo islamico. Questa premessa risulta propedeutica per inquadrare gli equilibri internazionali nel quale la Russia si trova a muoversi. Un’arena globale dove si va delineando l’emergere gradualmente più sostanziale di un nuovo fronte alternativo all’Occidente, cristallizzatosi anche durante le votazioni in sede UN all’Assemblea Generale del 27 ottobre scorso per la risoluzione di una tregua umanitaria a Gaza. Nello specifico dell’azione diplomatica russa nella crisi tra israeliani e palestinesi e nel più ampio quadro mediorientale, molteplici sono gli elementi che condizionano in modo pressoché strutturale l’operato russo nell’area.

Le relazioni sia con il mondo ebraico - nella dimensione domestica quanto esterna nei confronti dello Stato di Israele - sia con quello musulmano, anche qui sia sul piano interno quanto nella proiezione esterna in termini di rapporti bilaterali con i vari attori islamici dell’area - creano una situazione per la quale il Cremlino deve operare inseguendo un delicato quanto rischioso equilibrismo.

Incominciando con il mondo ebraico, la Russia di Putin ha intessuto rapporti generalmente solidi con Tel Aviv, come testimoniato anche dal rifiuto del governo israeliano di fornire i sistemi d’arma richiesti dal governo Zelenski. Il rapporto personale tra Putin e Netanyahu è stato anch’esso generalmente improntato a un orientamento cooperativo, nonostante talune esternazioni di natura antisemita rilasciate da esponenti del governo russo durante l’ultimo anno. La Russia per Israele rimane inoltre rilevante essendo militarmente presente in Siria e garante del governo di Bashar al-Assad: molteplici nel tempo sono state le intese con Mosca, ufficiali e non, per coordinare le operazioni militari di israeliani e americani in Siria, sia contro fazioni sciite sostenute dall’Iran, sia contro Isis. Ultimo elemento ma certamente non meno importante è il dato demografico, ossia la massiccia presenza di israeliani russofoni proveniente dall’ex URSS residenti in Israele, stimati a più di un milione e trecentomila persone.

Nei confronti del mondo islamico invece, e per comprendere le politiche del Cremlino in tale contesto, va anche qui considerato in primis l’ambito domestico: la Russia ha al suo interno una sempre più vasta comunità islamica di oltre 20 milioni di cittadini di fede islamica - tra l’altro poco secolarizzata e generalmente religiosa - di confessione sunnita, che si estende dal Caucaso del Nord al Tatarstan sino alla capitale Mosca, ove risiedono oltre tre milioni di cittadini musulmani. Questi meri dati rendono chiara l’influenza che tale realtà implicitamente esercita sull’operato estero del Cremlino - si pensi al recente tentativo di linciaggio di passeggeri israeliani all’aeroporto della capitale del Dagestan - e quanto questa influenza potrà ancora aumentare in futuro con una forza demografica in costante aumento. In secondo luogo, Mosca ha da sempre costituito, indipendentemente dai buoni rapporti con Israele, il punto di riferimento geopolitico e militare - negli anni recenti in questo affiancato anche dalla Cina, in specie sul piano economico - per l’asse sciita, in specie con l’Iran degli Ayatollah. Il controverso invito di una delegazione di Hamas a Mosca è da inquadrarsi - oltre che in una cinica Realpolitik - nella complessità degli elementi sopradescritti, e ad un tempo anche nella sempre presente strategia intenta a scardinare o danneggiare gli interessi americani nel mondo e più in generale di quelli dell’occidente collettivo, in tal modo così sovente denominato da Putin.

Un’ultima considerazione che suggella il complicato mosaico geopolitico sin qui lumeggiato, è il desiderio di Mosca di tornare a contare come forza diplomatica negli affari internazionali, ossia ai livelli raggiunti prima del conflitto in Ucraina: un desiderio che diviene un imperativo ai fini di risollevare l’immagine di una potenza militare ammaccata dalla campagna in ucraina. L’emergere del nuovo conflitto in Medioriente, quantomeno nel breve periodo, gioca certamente in favore di Mosca per due ordini di ragioni. In primo luogo, in termini di distrazione generale dal conflitto, sia diplomaticamente che mediaticamente; in secondo luogo, rende altresì più difficili i rifornimenti d’armi e munizioni da parte statunitense a Kiev, indebolendo di riflesso anche il ruolo di Zelenski. I prossimi mesi ci diranno in che modo Washington riuscirà a mantenere l’assistenza ai suoi due alleati e se, eventualmente, vi saranno compromessi o rimodulazioni dell’assistenza all’alleato ucraino.

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