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L’Afghanistan dei Talebani potrà rialzarsi dopo il terremoto?

Un terremoto devastante ha colpito l’Afghanistan, afflitto da insicurezza e crisi economica. Le possibili ricadute del sisma e i rischi della diffusione nel paese delle organizzazioni terroristiche nell’analisi di Emanuele Rossi

Waheedullah Jahesh / Shutterstock.com

“Invito tutte le persone di buona volontà ad aiutare il popolo dell’Afghanistan, che sta soffrendo a seguito del devastante terremoto che l’ha colpito. Contribuiamo in spirito di fraternità ad alleviare le sofferenze della gente e a sostenere la ricostruzione”. Quello che Papa Francesco ha affidato al suo account X è un messaggio di solidarietà spiazzante per il regime talebano che governa Kabul, con il Vaticano che invia un incitamento ecumenico quanto pragmatico.

L’Emirato islamico talebano dell’Afghanistan ha da poco festeggiato il secondo anno di vita, dopo il ritorno al potere del gruppo fondamentalista che fu fondato dal Mullah Omar. Il Paese è economicamente allo sbando, ha al suo interno una competizione intra-jihadista tra il gruppo al potere e lo Stato Islamico (che nell’area si fa chiamare IS-K, Islamic State in Khorasan), è in una condizione di complicato isolamento ed è stato dilaniato nei giorni scorsi da una scossa sismica devastante, che sta radendo al suolo i villaggi della provincia di Herat.

Partendo da qui, come paradigma generale dello stato del Paese, il governo talebano ha ricevuto forniture essenziali da Pakistan e Cina, due delle poche nazioni con cui ha rapporti. Provviste alimentari, coperte, abbigliamento invernale e kit igienici sono arrivati tramite convogli di assistenza, mentre sono attesi aiuti umanitari delle Nazioni Unite, il cui valore è stimato intorno ai 5 milioni di dollari. Ma con l'inverno alle porte, ulteriori assistenze sono fondamentali. Mentre Kabul ha difficoltà a dialogare, ad aprirsi al mondo. Aspetto che rende complicata l’assistenza occidentale, visto il timore che tutto ciò che viene inviato possa seguire vie condizionate dal regime, che non permette forme di condivisione nella gestione degli aiuti.

In Afghanistan la capacità di gestione dei disastri è praticamente nulla, l’organizzazione altrettanto. La tragedia mette in chiaro una realtà feroce: non solo i Talebani non sono una forza di governo (per incapacità statuali), ma nemmeno hanno in mano il controllo territoriale totale – anche perché ci sono porzioni controllate dall’IS-K. E da giorni il numero di morti aumenta di ora in ora, senza chiaramente potere avere fiducia sui dati comunicati dal governo afghano, perché i Talebani filtrano tutto con la lente della propaganda, e dunque in questo caso tendono a minimizzare la crisi. L'amministrazione talebana ha riportato uno sconcertante bilancio di almeno 2.400 morti e molti altri feriti: però questo terremoto si colloca tra i più letali al mondo nel 2023, paragonabile ai precedenti terremoti in Turchia e Siria, dove in un contesto più organizzato il numero delle vittime è stato notevolmente superiore.

Dal posto arriva un resoconto tragico: la città di Herat, dove si stima vivano più di tre milioni di persone, è spettrale. La gente dorme all'aperto, ai bordi delle strade e nei parchi, per paura di altre scosse. Le temperature scendono a 10 gradi Celsius di notte, e senza ripari e protezioni, il rischio di assideramento per i più deboli è evidente. Le persone ferite dal terremoto non hanno potuto ricevere le cure necessarie a causa delle scarse infrastrutture mediche dell'Afghanistan e stanno perdendo la vita anche con ferite altrove risolvibili. Molti potrebbero essere ancora sotto le macerie, ma l’unico team tecnico operativo è iraniano, non il massimo delle tecnologie possibili. La mancanza di cibo, ripari e acqua pulita sta aumentando i rischi per la salute delle comunità. A questo proposito anche l’Unicef ha diramato uno straziante appello.

La crisi sottolinea la vulnerabilità afghana. Il regime telabano ha cercato forme di contatto internazionale, innanzitutto rivolgendosi alla Cina, che ha accettato di avviare un dialogo, ma interessato. Pechino considera i Telebani potenziali sponde per alcune operazioni di lotta al terrorismo, temendo le attività osmotiche dell’IS-K con il confinante Xinjiang (la regione dove il governo cinese cerca di controllare le minoranze musulmane con campagne di rieducazione forzata per contenere fenomeni di separatismo, tra i quali hanno attecchito anche istanze jihadiste). Tuttavia, altre forme di cooperazione sono più complesse. Altri Paesi, come alcune monarchie del Golfo, o Iran, Pakistan, Russia, si sono aperti al contatto, ma chiaramente è forte il sentimento di sfiducia nei confronti di un gruppo di ispirazione jihadista e protagonista di azioni terroristiche.

L’Afghanistan non è considerato tra le priorità da buona parte del mondo. Non dalle nazioni occidentali o da gran parte dei paesi asiatici. Per i mediorientali e per l’Asia centrale è una grana da gestire con limitato interesse e con limitate risorse. Ma la percezione della recente catastrofe ha rimportato attenzione sul dossier, sebbene in maniera ridotta, superata da altre vicende che hanno magnetizzato maggiormente l’attenzione dei media internazionali. Parte del problema, relativo ai rapporti con il paese asiatico, risiede nell’impossibilità per gli stati di diritto, soprattutto occidentali, nell’aprire un confronto diplomatico con il gruppo jihadista che governa Kabul. La violazione dei diritti, il passato violento, il regime oscurantista, non permettono la costruzione di programmi di cooperazione.

Intanto, la situazione sta slittando verso una deriva sempre più preoccupante, con l’IS-K che cerca di capitalizzare dalle incapacità dei Talebani a governare il territorio. Anche il recente attacco terroristico contro una moschea sciita sembra essere stato finalizzato a inviare ai cittadini afghani un messaggio contro chi li sta governando, aumentando la sensazione di abbandono e insicurezza.

Infatti, l’assenza di una statualità si declina nell’Afghanistan dei Talebani anche in una sostanziale assenza di sicurezza. L’Occidente, che ha lasciato il Paese tra rancori e afflizioni, non garantisce più un minimo equilibrio interno, mentre altri attori – come la Cina – rinunciano qui come altrove al ruolo di security provider. E il dilagare terroristico è uno dei grandi scenari, potenziali quanto preoccupanti, che possono prodursi. Si teme che la forza dell’IS-K possa essere tale da ridare vita a uno scenario “califfale”, facendo tornare il Paese a essere un potenziale safe haven per il jihadismo globale, cosa che gli eredi di Abu Bakr al Baghdadi si prefiggono ancora come obiettivo esistenziale.

In questo contesto complicato anche dal dramma del terremoto, chi assicura che i jihadisti di IS-K non riescano a costruirsi un proprio tessuto territoriale, anche in contrapposizione con i Talebani? D’altronde, nel 2014 tra Siria e Iraq successe questo. Il terremoto fa da triste promemoria: l’assenza di stato e di controllo del territorio non solo non permette l’assistenza delle vittime della tragedia, ma anche di evitare rigurgiti terroristici che potrebbero avere nel tempo anche una portata internazionale.

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