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Lo Stato islamico sta tornando forte in Siria

Il numero di attacchi condotto dall’Is in Siria non è mai stato così alto sin dai tempi del Califfato. Ecco perché va monitorato. Il punto di Emanuele Rossi

Il trend con cui lo Stato islamico sta rivendicando gli attacchi compiuti in Siria è in una fase di crescita preoccupante. E questo potrebbe essere problematico perché, val la pena ricordare, è stato il contesto siriano a offrire il trampolino di lancio all’organizzazione immaginata da Abu Bakr al Baghdadi nel carcere antiterrorismo di Camp Buqqa, in Iraq. Quel contesto caotico in cui hanno preso slancio le istanze di Baghdadi è in effetti venuto meno con la fine de facto della guerra civile, ma il contesto siriano ha ancora spazi di amministrazione latente e sicurezza inesistente, che uniti all’insoddisfazione delle collettività locali possono produrre nuovi bacini di arruolamento per l’organizzazione. Tanto più dopo il ritorno delle grandi attività come quella di Mosca o Kerman.

A gennaio di quest’anno ci sono stati quattro volte gli attacchi dell’anno scorso, e dopo un febbraio più regolare, a marzo le azioni dell’Is sono state il triplo. Aprile è iniziato con una operazione su più fronti come non se ne vedevano da tempo: nella notte tra il 5 e il 6 le milizie dell’Is hanno attaccato la città di Madaan, nella Siria centrale, lungo il fiume, qualche decina di chilometri a sud di Raqqa (che fu capitale dello Stato islamico), colpendo varie postazioni di controllo lungo l’autostrada che lega la città a Deir Ezzor. In queste zone la sicurezza dovrebbe essere garantita in via prioritaria dai soldati di Assad, che non sembrano ancora sufficientemente capaci, come non lo erano ai tempi della guerra civile — iniziata oltre dieci anni fa e ora giunta ad una fase che dà la vittoria al regime anche se persistono problematiche diffuse, tali per cui Damasco non controlla il territorio e i suoi rivali (come l’Is) non sono così deboli.

L’area attaccata recentemente dai baghdadisti è difesa anche da truppe russe (in Siria per aiutare Assad dal settembre 2015) e dalle milizie coordinate dai Pasdaran (che stanno usando il paese anche come piattaforma di attacco contro Israele). Eppure, lo Stato islamico è ancora in grado di rappresentare una minaccia, organizzare azioni importanti, ottenere successi. Nelle aree controllate dal regime, l’Is ha lanciato almeno 135 attacchi nei primi tre mesi del 2024, rappresentando un aumento del 170% rispetto ai tre mesi precedenti, spiega sul magazine al Majalla Charles Lister, analista del Middle East Institute e uno dei massimi esperti al mondo di terrorismo siriano. La situazione non è diversa nelle zone sotto l’amministrazione delle Syrian Democratic Forces, l’insieme di milizie composte soprattutto dalle unità curde che gli Stati Uniti avevano messo insieme proprio per combattere lo Stato islamico nella fascia settentrionale siriana: dopo i grandi successi che hanno portato alla cancellazione della dimensione statuale del Califfato da sette a cinque anni fa, ora ci sono stati aumenti del 30-40% consecutivamente ogni mese da gennaio, con più di 115 attacchi registrati in totale. Di questi, 69 solo a marzo: mai così tanti da quando gli uomini di Baghdadi dominavano Raqqa.

Un aspetto importante che fa pensare a un ritorno delle attività organizzate e dell’efficacia del proselitismo riguarda la tipologia di questi attacchi. Vero che la maggior parte restano IED (acronimo internazionale di “improvised explosive device”), poco costosi, facilmente gestibili e piuttosto semplici da preparare. Ma stanno aumentando anche le azioni più complesse: assalti di massa (come la notte di inizio aprile a Madaan), imboscate coordinate, incursioni armate. Stanno tornando anche i sistemi di tassazione forzata, sul modello del racket in stile criminale, che veniva compiuto in veste di amministratori territoriali, che poco si discosta dalle estorsioni mafiose.

Sono tornati persino l’uso di falsi checkpoint per catturare, interrogare e giustiziare i nemici — ossia i miliziani hanno meno paura di esporsi in pubblico. Sempre a inizio aprile, è stato trovato morto uno dei leader della ex Jabhat al Nusra, l’entità qaedista siriana che l’IS considera come nemico perché interpreta il jihad in modo meno globalista. Si pensa che sia stato opera di sicari baghdadisti, che in Siria eliminano i rivali con dinamiche simili a quelle dellle cosche malavitose. Con lo scopo di mettere in difficoltà i competitor, mostrare i muscoli e dimostrare capacità anche agli occhi di potenziali proseliti. I quali recentemente starebbero tornando a crescere.

Quando il grosso dello Stato islamico fu sconfitto, il problema principale riguardava proprio il proselitismo. Si credeva che non si potesse più ricostruire una macchina efficace ed efficiente come quella che aveva mosso miliziani e foreign fighters da mezzo mondo. E invece le truppe sono tornate a crescere, anche grazie a campagne propagandistiche incessanti (e funzionali), che stanno favorendo il reclutamento.

Spiega Lister: “Se l’IS dovesse continuare lungo la sua ritrovata traiettoria, l’impatto della sua estorsione, intimidazione e minaccia crescerà in modo esponenziale. Quel processo è iniziato in Iraq e successivamente in Siria dal 2011, ponendo le basi per la drammatica espansione territoriale dell’IS tre anni dopo. Il fatto che la Siria offra opportunità all’IS non solo per sopravvivere ma per riprendersi non dovrebbe essere una sorpresa. Questa ondata di attacchi non è venuta fuori dal nulla”. I segnali c’erano, ma la Siria è un dossier dimenticato dalle attenzioni mainstream. Però, il ritorno dello Stato islamico in altri contesti (dal cosiddetto Khorasan all’Africa) permette al “vecchio cuore” dell’organizzazione fondata da al Baghdadi di tornare a battere.

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