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Perché le sorti del Kenya sono un affare internazionale

Mentre nel paese non si esaurisce l’onda di proteste contro il governo, aumenta il rischio di una destabilizzazione interna, che potrebbe avere risvolti anche oltre il continente africano. Il punto di Daniele Ruvinetti

Non solo non si fermano, ma le proteste antigovernative in Kenya si moltiplicano e creano l’effetto palla di neve sul piano inclinato della stabilità interna. La proposta di alzare le tasse – poi ritirata, modificata e successivamente comunque approvata – è stata l’occasione per spaccare gli equilibri interni dopo che a due anni dall’elezione del presidente William Ruto le promesse elettorali stentano a concretizzarsi. Quanto accade nel paese non resta nel paese però, perché il Kenya è cruciale per gli equilibri africani e per tutta una serie di dinamiche internazionali di cui ormai il continente è protagonista: sviluppo, investimenti cooperativi e competizione tra potenze.

La polizia ha usato le maniere forti, un paio di dozzine di manifestanti sono morti e vi sono state denunce di violazione dei diritti –. Nairobi, Mombasa, Kisumu sono le tre principali città kenyote, tutte pervase dalle proteste, le cui immagini stanno raccontando un paese molto meno stabile di quanto non abbia descritto Ruto, dato che il risentimento che ha portato i cittadini in strada covava evidentemente da tempo.

Ora, mentre Ruto definisce i manifestanti dei “sovversivi”, si rischia forse di finire vittima di una dinamica non nuova in Africa? Le manifestazioni hanno spesso una ragione pratica, realistica – nel caso le condizioni di vita, l’aumento delle tasse per sostenere una spesa pubblica incontrollata/incontrollabile, la gestione dura delle proteste – ma che poi diventano oggetto di campagne di disinformazione che contribuiscono a infiammare le piazze. Creano percezioni alterate, producono effetti a catena. E mentre chi manifesta chiede le dimissioni del presidente (al tempo dell’elezione eroe degli “hustler”, uomo fatto da sé e immagine della speranza di crescita in un paese difficile ma comunque in via di sviluppo), ci si chiede come siamo arrivati fino a qui.

Il Kenya è vittima di una duplice problematica: da un lato, gli effetti nefasti della guerra russa in Ucraina, con il paese tra i più colpiti dall’inflazione alimentare ed energetica che ha prodotto un aumento generale del costo della vita; dall’altro il programma di riforme pensato da Ruto è costoso e le famiglie della politica kenyota, che il leader popolare ha messo da parte, non intendono arretrare di un centimetro nelle critiche pubbliche. La revisione delle regole fiscali impatta in questo contesto, colpisce soprattutto i giovani, che vedono nell’inflazione un blocco insormontabile per le loro aspettative di futuro.

E dire che erano stati proprio loro, i giovani (componente demografica maggioritaria), il centro della campagna elettorale di Ruto. Gli veniva promessa la riduzione delle tasse e varie agevolazioni fiscali, in parte saltate con il nuovo Finance Bill. Gli si prometteva maggiore prosperità anche attraverso la riduzione della disoccupazione. Una spinta che non si è ancora innescata, dopo due anni – anzi.

Questo contesto interno si scontra con l’idea che il Kenya intende dare di sé nel quadro internazionale. Nairobi ambisce a essere identificata come una potenza regionale, un riferimento sia a livello di stabilità (lo è, o forse lo era in effetti) sia a livello di capacità di sviluppo. Da tempo, per esempio, le forze kenyote partecipano con proattività a missioni internazionali, e non solo in Africa: saranno loro, infatti, a guidare il contingente multinazionale che cercherà di stabilizzare la sicurezza di Haiti. Un compito su cui accettano il coinvolgimento per richiesta diretta degli Stati Uniti, che stanno incrementando la cooperazione con il paese.

Gli americani cercano tramite il rafforzamento della loro cooperazione con il Kenya di migliorare il loro posizionamento in Africa centrale e settentrionale. Il paese da questo punto di vista è un hub geostrategico fondamentale. Assetti militari statunitensi e non solo, anche come dispiegamento dal Sahel, si stanno spostando sul suolo kenyota, dove continueranno le attività di contrasto al terrorismo; mentre le partnership su settori delicati come lo sviluppo africano delle nuove tecnologie stanno prendendo vita e nuova linfa. Nairobi è un nodo centrale nel contrasto (statunitense ed europeo) allo sviluppo africano di rivali come Russia e Cina.

Evitare che le proteste degradino in un conflitto interno è la necessità numero uno. Anche perché il caos potrebbe aprire le porte non solo alle narrazioni antioccidentali spinte dai rivali, ma anche a un problema consequenziale. La fascia nord del Kenya è infatti parte del territorio di attività di Al-Shabaab, la milizia jihadista che da anni tempesta la Somalia. Il Kenya partecipa alle operazioni di contrasto, guidate di fatto dagli Usa. Se le sue forze dovessero essere concentrate nel mantenere la salute interna, il rischio è che le aree più remote settentrionali vengano brutalmente conquistate dal gruppo somalo. E ciò aprirebbe alla creazione di un safe-haven terroristico.

È dunque evidente che proteggere la stabilità del Kenya debba essere una priorità tanto per gli Usa quanto per l’UE. È altrettanto chiaro che il paese debba strutturarsi, perché quanto sta accadendo è causato da una problematica sistemica, con l’economia che stenta a decollare e che è tenuta in piedi dai prestiti internazionali. Questi ultimi, però, costano un’enormità in interessi, rendendo necessarie misure di emergenza come l’aumento delle tasse, che poi inevitabilmente innescano reazioni tra le persone sempre più insoddisfatte.

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