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Se dalla Libia passa la stabilità del Mediterraneo Allargato

Il processo innescato dall’Onu con la nascita del Governo di unità nazionale di Tripoli non è soltanto fondamentale per stabilizzare un paese importante affacciato sul Mediterraneo, ma è cruciale per gli equilibri di un’intera regione su cui si muovono potenze internazionali.

La conferenza internazionale sulla Libia che si è tenuta a Berlino il 23 giugno (seguendo uno schema diplomatico già avviato nella capitale tedesca il 19 gennaio) ha tracciato tre elementi che possono fare da linee guida per la stabilizzazione del paese nordafricano. Primo, seguire il percorso segnato dall’Onu per portare i libici al voto –presidenziale e parlamentare – il 24 dicembre di quest’anno. Secondo, l’uscita di tutte le forze militari straniere dal suolo libico. Terzo, la costruzione di un pacchetto di riforme economiche.

Tre obiettivi che le Nazioni Unite avevano già indicato al Governo di unità nazionale guidato da Abdelhamid Dabaiba, esecutivo che ha ricevuto l’incarico attraverso il voto del Forum di dialogo politico libico, il meccanismo negoziale studiato dall’Onu in cui 75 delegati appartenenti a tutte le anime del paese sono stati chiamati, a inizio 2021, a dare seguito al cessate il fuoco raggiunto tra Tripolitania e Cirenaica dopo l’ultima delle guerre civili che nel decennio post-gheddafiano hanno lacerato la Libia.

Berlino ha rafforzato quelle necessità, con l’obiettivo di dare maggiore solidità al complicato processo di stabilizzazione in corso. Le tre questioni in agenda non sono per altro separabili. Se il voto è il passaggio necessario per legittimare chi governa a Tripoli (ci si tornerà), l’eliminazione delle varie forze straniere è altrettanto cruciale. Sia per la ricomposizione di un contesto securitario interno, sia per evitare che gli attori esterni al conflitto possano usare la loro presenza (armata) per spingere i propri interessi e la propria agenda, elementi che nel corso degli ultimi dieci anni si sono dimostrati non allineati con le esigenze dei libici.

Come noto, sul lato della Tripolitania la Turchia ha stretto un accordo di cooperazione con il precedente governo onusiano; su quello della Cirenaica le unità che avevano lanciato l’assalto armato a Tripoli hanno ricevuto assistenza dai contractor del Wagner Group russo e da altri mercenari africani. Forze che sono rimaste ancora in Libia e che rappresentano un potenziale innesco di ulteriori destabilizzazioni.

Le agognate riforme, innanzitutto quelle di carattere economico, faticano a essere completate in un contesto istituzionale debole. Il voto serve per dare solidità alle istituzioni, ma anche per permettere al futuro governo eletto di usare una leva maggiore davanti alle forze straniere e ricompattare il quadro di sicurezza. Sicurezza che, va detto, passa da quelle presenze esterne tanto quanto dalla riunificazione delle forze armate, attualmente divise in una miriade di milizie, ognuna con interessi propri (spesso giocati anche con la sponda di quegli attori esterni). L’equilibrio è delicato.

È qui che il processo di stabilizzazione va tutelato. Vale la pena dunque allargare lo sguardo in avanti e tracciare quanto potrebbe accadere. Pacifico che le elezioni siano una priorità assoluta come detto e come ha recentemente indicato in un’audizione parlamentare il Ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio; posizione per altro condivisa, anche nei termini di aumentare le pressioni, con gli Stati Uniti e con l’Unione europea. Tanto che è stato già annunciato che chiunque verrà individuato come responsabile di aver ostacolato le elezioni finirà nelle liste sanzionatorie.

Di più, dunque: le elezioni diventano il passaggio che permetterebbe lo sblocco delle altre necessità della Libia, perché un governo eletto avrebbe molta più potere nel forzare le condizioni di uscita dei gruppi armati stranieri, e nel determinare le riforme (da quelle economiche a quelle securitarie). Posizione condivisa con Roma da Washington: gli Stati Uniti ritengono che la stabilizzazione sia completa solo con le votazioni, e pensano chiaramente alle proprie priorità. Su tutte, l’uscita del Wagner Group, considerata una penetrazione di carattere strategico della Russia nel Mediterraneo.

Diventa allora impossibile non esaminare con attenzione il piano alternativo che è in progetto tra Onu e parlamento HoR: una legge che potrebbe esautorare il ruolo dei 75 del Forum e forzare le elezioni di presidente e parlamentari. Una mossa che sta prendendo concretezza e che si basa sulla necessità di andare contro certe dinamiche innescate tra i delegati al dialogo onusiano, dove alcuni sembrano intenzionati a ritardare il processo elettorale come forma di salvaguardia di interessi propri o per procura. Il Parlamento, che ha dato la fiducia a Dabaiba, e che è riconosciuto a livello internazionale perché ultima istituzionale regolarmente eletta, si intesterebbe in questo modo la transizione, promuovendo e votando direttamente la elettorale (ruolo che spettava al Forum).

Se questo progetto si concretizzerà (e sembrano esserci spinte importanti da varie parti della Comunità internazionale), il voto del 24 dicembre sarà probabilmente salvo. Non saranno salve però le potenziali ripercussioni sul panorama politico libico e su quel delicato equilibrio che regola attualmente il paese. In ballo c’è infatti anche l’approvazione della legge per il Bilancio dello stato, che i parlamentari stanno ritardando anche in risposta allo stallo dell’approvazione del piano costituzionale per il voto prodottosi al Forum. Sulla sfondo resta la remota possibilità che il primo ministro Dabaiba chieda alla Banca centrale libica di provvedere in via emergenziale ai fondi, scavalcando il Parlamento.

Una sovrapposizione di elementi che potrebbe creare una grossa frattura, portando la Libia indietro più che traghettarla verso un futuro prospero. Con il rischio oltretutto che si inneschi anche un processo di carattere regionale: la crisi libica è in effetti sempre stata un test, una cartina di tornasole, per la regione. Se infatti lo scontro armato aveva esacerbato le divisioni intra-sunnismo tra Turchia da un lato ed Egitto e Emirati Arabi dall’altro, la stabilizzazione avviata dall’Onu in Libia era stata anche spinta per un tentativo di riapproccio tra Ankara e Il Cairo (e Abu Dhabi). Effetti che per di più si potrebbero riversare sul’areale vasto del Mediterraneo Allargato. Ed è altrettanto da segnalare che l’attuale stallo ha coinciso con un annacquamento delle relazioni turco-egiziane. Dal destino della Libia, insomma, passa il destino di un’ampia regione di mondo che è ancora attrazione degli interessi globali. Regione che è il naturale bacino di proiezione internazionale dell’Italia.

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