Chi sale e chi scende nella squadra di Trump
Come cambiano gli equilibri all’interno della squadra di governo di Donald Trump. Il punto di vista di Stefano Marroni

Quando nelle settimane febbrili che seguirono il suo insediamento Donald Trump annunciò le sue scelte per la formazione del governo, in pochi – nei circoli della Washington che conta – avrebbero scommesso un gran che sulle possibilità di Marco Rubio di restare a lungo in sella come segretario di Stato. Con alle spalle una lunga storia di militanza nelle file dei falchi del Gop, sulla scia di Ronald Reagan e George Bush, il senatore cubano della Florida era stato uno dei più ostici avversari del tycoon sulla strada della sua nomination repubblicana nelle primarie del 2016, guadagnandosi in cambio il sarcastico soprannome di “little Marco”. Ma soprattutto la sua riconosciuta esperienza internazionale (che a gennaio gli ha garantito il sì di novantanove senatori su novantanove nel voto di conferma della sua nomina) e uno standing nella considerazione dei media inversamente proporzionale a quella del mondo MAGA sembravano doverlo portare rapidamente in rotta di collisione con un presidente noto per “preferire i fedeli ai leali” (nelle parole di un ex amico del rango di John Bolton) e poco incline ad ascoltare il parere di chi pensa di saperne più di lui.
E invece la brusca uscita di scena dal NSC di Mike Waltz – silurato con un post sui social dopo solo 101 giorni di mandato – ha segnalato a tutti un clamoroso ribaltone del “chi-sale-chi-scende” nel gruppo di uomini che affiancano Trump nella gestione della politica estera. Con l’assegnazione a Rubio di un doppio ruolo – segretario di Stato e consigliere per la Sicurezza nazionale – che ha un solo ma molto significativo precedente: quello che nei primi anni ’70 vide Henry Kissinger al fianco di Richard Nixon e poi di Gerald Ford.
Nelle settimane precedenti, molti commentatori si erano esercitati nel decrittare i segnali di una sorda guerra di potere attorno allo Studio Ovale tra tre fazioni molto ben delineate. La prima – ha scritto il Washington Post – raggruppa i true believer del Maga, del tutto critici del ruolo che la storia degli ultimi 80 anni ha cucito addosso agli Stati Uniti e ostili alle tradizionali e “troppo vincolanti” alleanze internazionali con il Canada, l’Europa e il Giappone. È un drappello che ha visto rafforzarsi – al fianco del vicepresidente JD Vance - il consigliere per la sicurezza interna e vice capo dello Staff Stephen Miller e il più convinto alfiere della guerra dei dazi, il consigliere Peter Navarro. Del gruppo fa parte anche il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, l’ex volto di Fox News uscito però molto indebolito (se non decisamente traballante) dal caso Signalgate, che lo ha coinvolto insieme a Walz. Ma ne sono membri anche Donald Trump jr, attivissimo nel tessere la rete internazionale dei rapporti d’affari del padre, e soprattutto l’influencer Laura Loomer, quella de “gli-immigrati- haitiani-mangiano-cani-e-gatti” e che dopo aver suggerito a Trump di licenziare alcuni dei più autorevoli funzionari del dipartimento di Sato e del Pentagono ha festeggiato il siluramento di Waltz scrivendo a lettere cubitali “SCALP!”, ossia “scalpo”, sul suo profilo X.
Rubio – nonostante la sua recente conversione al trumpismo, e la dichiarata, pubblica delusione nei suoi confronti di chi sia nel Gop e che tra i democratici vedeva in lui un possibile contraltare agli “animali spirits” di Trump -– è senza dubbio ascrivibile alla seconda fazione, quella che sui giornali americani è definita degli “internazionalisti repubblicani” di ascendenza reaganiana, insieme al capo della Cia John Ratcliffe. Ed è questo a far sospettare a molti - a Capitol Hill e soprattutto tra i diplomatici - che alla lunga la sua convivenza con Trump non possa durare, riproducendo nel secondo mandato la dinamica che nel primo vide il licenziamento di Rex Tillerman dopo poco più di tredici mesi. Ma era Walz il più esposto nel gruppo, con le sue quattro decorazioni al valore negli anni di servizio nei Berretti Verdi, le quattro elezioni consecutive al Congresso e il lavoro al Pentagono nell’amministrazione Bush. L’incidente del “SignalGate”, con l’inserimento del direttore di The Atlantic Jeffrey Goldberg in una chat sull’imminente attacco allo Yemen tra altissimi papaveri dell’amministrazione, ha fornito a Trump il grimaldello ideale per liberarsi di un uomo pericolosamente ostile a Putin e notoriamente contrario ad un taglio negli aiuti militari all’Ucraina, a cui il presidente ha comunque offerto il paracadute dell’incarico di ambasciatore al Palazzo di Vetro. Di fatto – hanno raccontato almeno tre insiders a The Atlantic – i suoi poteri al NSC erano già stati svuotati dal ruolo di Miller e Witkoff, “l’ideologo” e “il vecchio amico” del presidente. E in ogni caso i suoi risicati 101 giorni da Consigliere per la Sicurezza Nazionale, in fondo, sono stati molti di più dei quelli del primo dei quattro uomini scelti per quel ruolo nel primo mandato di Trump: Michael Flynn resistette solo tre settimane prima di dimettersi, travolto dal sospetto di avere mentito al Fbi su presunti contatti con Mosca prima dell’inaugurazione.
La terza fazione è quella che con Trump condivide non solo le idee anche un vissuto per molti versi simile, ed è probabilmente quella che conta di più: la formano i cosiddetti “oligarchi”, i miliardari cioè che il presidente ha voluto accanto a sé spesso a dispetto della loro totale inesperienza nell’ambito della politica estera (e della politica in generale). In cima alla lista, ovviamente, c’è Steve Witkoff, il potente immobiliarista newyorkese che ha tessuto per Trump sia la finora frustrante trattativa con Putin sull’Ucraina sia quella - assai più fruttuosa - con i suoi potenti amici del Golfo, e – ancora – sta gestendo i complicati colloqui sul nucleare con gli emissari dell’ayatollah Khamenei. Ci sono un re della finanza come Scott Bessent, segretario al Tesoro e primo gay dichiarato in un governo repubblicano – uno dei più accreditati suggeritori della prima frenata sui dazi della Casa Bianca - ed un altro guru di Wall Street come Edward Lutnick, che al contrario ha sostenuto da segretario al Commercio la linea dura, finendo persino spiazzato dalla virata in extremis di Trump: “Non conosco nessuno – ha svelato a Politico una fonte della Casa Bianca – che non sia inc….to con lui”.
Del gruppo, ovviamente, fa parte anche Elon Musk. Per settimane il patron di Tesla e Space X è stato tra i protagonisti della vita del governo, ospite fisso dello Studio Ovale e dell’Air Force, libero di dire la sua praticamente su tutto oltreché di agitare non solo metaforicamente la motosega di Melei contro i più disparati settori dell’amministrazione pubblica. A lungo, Trump gli ha garantito una copertura assoluta, ma da marzo in poi, a poco a poco, la musica è cambiata. Su Truth – ha notato Politico – il presidente citava Musk in una media di quattro post alla settimana, ma dai primi di aprile non ha mai più nominato. E il nome del padrone di X – munifico sostenitore della campagna elettorale e poi degli eventi dei primi cento giorni – è sparito dai bollettini della Pac che sostiene Trump e quasi sparito persino dai comunicati della Casa Bianca, di cui a lungo “è stato come una graffetta”.
È la presa atto di una impopolarità che ha polarizzato sul miliardario l’ostilità anche di settori dell’elettorato Maga: “La gente ha sostenuto lo sforzo di mettere alla fine agli sprechi nell’amministrazione pubblica ma non il modo in cui è stato fatto”, spiega Frank Lutz, uno dei più ascoltati sondaggisti di area Gop. “La sua missione è stata certamente vista come utile, ma il suo linguaggio no”. Musk è stato tra i signori del big tech che hanno accompagnato Trump nel suo recente viaggio nel Golfo, ma sui giornali sono affiorate le preoccupazioni dei repubblicani per il suo ruolo in vista del voto de Midterm del prossimo anno e anche gli scontri furibondi e ripetuti con membri del governo del calibro di Bessent e Rubio. La scomunica di Trump è arrivata al solito sui social, togliendo letteralmente l’accetta delle mani di Musk: “I ministri sanno perfettamente e con assoluta precisione chi nei loro dipartimenti deve restare e chi deve andarsene”, ha sentenziato. “Gli ho detto di usare lo scalpello, invece dell’accetta”.
Deluso dai risultati inferiori alle attese dei suoi tagli, preoccupato per le minacce a lui e alla famiglia, certamente impreparato alle tensioni politiche che ha suscitato, il master di Tesla – precipitata nelle vendite in tutto in modo, e pesantemente colpita in Borsa – ha fatto sapere nei giorni scorsi di credere di “aver fatto abbastanza” in politica e di voler ritornare agli affari, dopo aver segnalato in maniera simmetrica a Trump, con i suoi post su X, come le cose stessero cambiando.
A febbraio – ha notato il Washington Post – più della metà dei suoi tweet erano sull’azione del DOGE nel taglio alla spesa pubblica, e almeno il 13 per cento menzionavano direttamente il presidente. A maggio, il Doge e le questioni politiche sono stato citati in meno del 20 per cento dei casi, e solo in un misero 3 per cento nomina Trump, lasciando spazio ai temi del business e della tecnologia. Anticipandolo in un’intervista in Qatar, Musk ha confermato anche di voler “spendere molto meno per la politica”, dopo aver investito poco meno di 300 milioni di milioni di dollari nel suo “American PAC” a sostegno di Trump e del Gop: “Se in futuro vedrò una ragione per investire ancora in politica, lo farò. Diciamo che al momento non ne vedo la ragione”.
Per molti repubblicani, che contavano di poter ancora pescare nelle sue tasche, non è esattamente una buona notizia. E – sarcastico - un antico avversario dell’uomo più ricco del mondo come Steve Bannon ha detto di Musk che” si riprende i giocattoli e va a casa”. Dal punto di vista di Trump e della sua politica estera, però, anche questa uscita di scena probabilmente non cambierà granché. Perché Trump “non è uomo da eminenze grigie, e non accetterebbe mai che uomini come Dean Acheson o Henry Kissinger gli guidino la mano. Come altri presidenti prima di lui, da Kennedy a Reagan a Obama - ha scritto su Foreign Policy lo storico David Milne – in ultima analisi il consigliere per la Sicurezza Nazionale, il segretario alla Difesa e il segretario Stato di Trump non potranno che essere… Donald Trump”.