La condanna di Bolsonaro
La condanna dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro: il punto di vista di Stefano Marroni

Forse c’è anche la condanna a ventisette anni di prigione inflitta all’ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro, tra gli effetti paradossi dello stile di Donald Trump. Del suo presumere che basti far la voce grossa e minacciare devastanti politiche commerciali per indurre i leader mondiali a fare quello che desidera, senza tenere conto della storia e della tradizione politica dei paesi, e del profilo personale dei loro leader. Con il risultato di fare spesso un piacere ai suoi avversari.
Sulla scena internazionale, da gennaio a oggi, è successo di certo con le vittorie a sorpresa dei candidati progressisti nelle elezioni in Canada e in Australia, con il fiasco dei tentativi di imporre “in ventiquattro ore” una sua pace all’Ucraina e con il caos nei rapporti con gli alleati arabi del Golfo: per finire con il clamoroso abbraccio in piazza Tien An Men tra Modi e Xi Jinping, che ad oggi sembra aver bruciato il faticoso, pluridecennale lavoro diplomatico per portare New Delhi al fianco degli Usa nello scenario indopacifico.
Ma molto sembra dire anche che se il tycoon non avesse per mesi inveito contro il presidente Luis Ignacio Lula da Silva, varato sanzioni per i giudici della Corte Suprema di Brasilia e infine imposto dazi del 50 per cento sulle esportazioni verso gli Usa, le autorità del Brasile – la seconda democrazia dell’emisfero occidentale, e la potenza demografica ed economica che domina la scena latinoamericana – avrebbero faticato molto di più nel portare in fondo – con il sostegno crescente dell’opinione pubblica - il processo che il 10 settembre si è concluso in diretta tv con la condanna dell’ex capo dello Stato, dei suoi più stretti collaboratori e di un manipolo di generali, accusati di aver lavorato a un piano per ribaltare con la forza l’esito delle elezioni del 2022, e di aver progettato - tra gli altri – anche l’omicidio di Lula.
Non era mai successo in Brasile: e questo nonostante i cinque colpi di Stato militari che tra il 1889 e il 1964 hanno deviato il corso della vita democratica del paese e imposto anche lunghi anni di dittatura. Del processo, trasmesso integralmente sui canali televisivi, Trump ha detto che si trattava di una “inaccettabile caccia alle streghe” contro “un uomo straordinario”, esigendo che cessasse “immediatamente”. Le restrizioni ai viaggi e agli interessi dei giudici della Corte suprema e in particolare verso il suo presidente Alexandre de Moares – già finito nel mirino di Elon Musk per i suoi interventi contro la “disinformazione” sui social - sono state adottate ricorrendo al Magnitsky Act, varato nel 2012 contro i responsabili dell’omicidio di un oppositore di Putin e poi scattato solo un’altra volta, per le violazioni dei diritti umani dei generali birmani: “Che ciò sia di monito – ha avvertito il segretario di Stato Marco Rubio – a tutti coloro nel mondo che vorrebbero calpestare i diritti fondamentali dei loro concittadini”. Poi a inizio luglio, in reazione a quel che giudica “una minaccia alla sicurezza nazionale, alla politica estera e alla economia degli Usa”, la Casa Bianca ha fatto scattare i dazi, mandando a monte i negoziati già avviati dal maggio scorso dalle autorità di Brasilia e persino da esponenti della opposizione anti Lula. Dazi più alti persino di quelli imposti alla Cina ed economicamente incomprensibili verso un paese nei cui confronti gli Stati Uniti vantano un corposo surplus commerciale: un danno importante – al netto della esenzione per gli aerei della “Embraer”, che monopolizzano il mercato del corto raggio negli Usa - soprattutto per l’agricoltura brasiliana, che esporta negli Usa gran parte dei suoi prodotti più noti, a cominciare dal caffè.
In questo clima il processo è iniziato e si è sviluppato. Con i giudici che prima hanno imposto a Bolsonaro una cavigliera elettronica per impedirne la fuga, e poi gli arresti domiciliari dopo il suo intervento a una manifestazione a Rio de Janeiro per premere sulla Corte. Ma l’attacco senza precedenti della Casa Bianca si è rivelato presto un boomerang, offrendo a Lula la possibilità di ergersi a paladino della sovranità e dell’orgoglio nazionale brasiliano: “Un gringo non darà mai ordini a questo presidente”, ha scandito l’ex sindacalista diventato presidente: “Discutiamo pure di questioni commerciali, ma i brasiliani sono gli unici a poter decidere il futuro del Brasile. Siamo di fronte a un inaccettabile ricatto, che viola i principi basilari della sovranità e del rispetto tra le nazioni”.
A ruota “Xandao” - il “grosso Alex”, come i brasiliani chiamano de Moraes - ha mandato a dire a Trump che “questa Corte non si piegherà davanti a minacce vigliacche e inutili. Il processo non rallenterà né si fermerà”. Risultato, un immediato balzo nella popolarità di Lula, con i sondaggi a registrare un serrate le fila patriottico nell’opinione pubblica, e che oggi – scavalcando le divisioni tra gli schieramenti – a sentenza ormai emessa vede il 55 per cento dei brasiliani contrari anche a qualunque ipotesi di amnistia o indulto su cui lavorano i bolsonaristi. Con persino settori dell’opposizione moderata a Lula, guidati dal presidente centrista del Senato Davi Alcolumbe, pronti a sbarrare il passo in Parlamento ai piani dell’ultradestra e del figlio dell’ex presidente Eduardo Bolsonaro, che da mesi, a Washington, è l’anima di una lobby molto influente negli ambienti MAGA.
A mettere pressione a Trump, al di là del rapporto personale, c’è stata certamente una quota di identificazione psicologica tra la sua vicenda e quella dell’ex presidente, sconfitto di soli due punti nel voto di tre anni fa, in elezioni che come Trump Bolsonaro ha definito “truccate”: “Questa sentenza è terribile, hanno fatto a lui quel che avrebbero voluto fare a me”, ha detto il tycoon. Anche a Brasilia, nei giorni precedenti la proclamazione del nuovo presidente, si era scatenato - a due anni esatti dai tumulti del sei gennaio 2021 a Capitol Hill - un assalto ai palazzi del potere di Brasilia concluso alla fine dall’intervento delle forze di sicurezza, con migliaia di arresti e seicento condanne. In quei giorni, prudentemente, Bolsonaro era volato in Florida. Ma dagli atti del processo è emersa la sua partecipazione ad una cospirazione avviata immediatamente dopo il voto, con riunioni ad hoc e con tanto di stesura e stampa – in un caso persino negli uffici del presidente e in sua presenza - di una serie di documenti rinvenuti dalla Corte dopo che uno dei congiurati – il tenente colonnello Mauro Cid, capo della segreteria di Bolsonaro – ha iniziato a collaborare, fornendo agli inquirenti una ricostruzione minuziosa non solo dei piani e dei nomi dei congiurati: “Si tratta di ottenere l’estinzione del ticket vincente”, ossia di Lula e del suo vice Geraldo Alckmin, si legge in un appunto scritto a pochi giorni dal voto dall’ex capo delle Forze speciali, il generale Mario Fernandes: “Il nostro non salirà la scala del Palazzo presidenziale...”.
Ai primi di dicembre del ‘22 tutto sembrava pronto, ma il piano non scattò. A far fallire il disegno golpista, nella ricostruzione dei giudici, fu essenzialmente la non disponibilità di tutte le forze armate a sostenere il putsch, con un atteggiamento – hanno suggerito al New York Times fonti accreditate di Washington – a cui potrebbe non esser stata estraneo il mancato via libera emerso da una consultazione con gli uomini dell’allora presidente Biden. L’otto dicembre, in una riunione drammatica convocata nel suo ufficio dall’ex capo dello staff e candidato nel ticket di Bolsonaro generale Walter Braga Netto, i congiurati illustrarono il piano per la proclamazione dello stato di emergenza ai vertici di Aviazione, Marina ed Esercito. Ma solo l’ammiraglio Almiro Garnier approvò il piano, mettendo le sue unità a disposizione. I golpisti – ha raccontato Cid – misero allora mano a documento edulcorato, tornando alla carica: “É ora o mai più, comandante: dobbiamo agire!”, implorò Fernandes il capo dell’Esercito, il generale Marco Antonio Freire Gomes. Ma Esercito e Aviazione non si mossero: “Ho ribadito ai miei interlocutori – ha detto Freire Gomes al processo – che le truppe non avrebbero agito fuori e contro il dettato costituzionale”.
La linea difensiva di Bolsonaro – “Volevo solo verificare quali margini ci fossero per impedire il successo di Lula nell’ambito della Costituzione” – è in queste settimane al centro della spinta della destra per un provvedimento di clemenza che risparmi il carcere non solo ai congiurati e all’ex presidente – afflitto da seri problemi di salute – ma anche ai protagonisti della sommossa di Brasilia. Sarà uno scontro duro, in Parlamento e nel paese. E al Supremo, che ha deliberato le condanne dei congiurati con una maggioranza di quattro contro uno, avvertono che opporranno la Costituzione ad ogni ipotesi di indulto, avvertendo che “l’otto di gennaio non è stata una passeggiata a Disneyland e nemmeno una manifestazione spontanea. È stato un tentativo di golpe, da parte di una organizzazione criminale”. Uno scenario che da qualche settimana suggerisce anche a Trump maggiore prudenza: “Lula può chiamarmi quando vuole”, ha detto. “A me piace molto, il Brasile…”.