Gaza, il piano Trump e la nuova architettura di sicurezza regionale
A due anni dal 7 ottobre, dopo due anni di guerra, il Piano Trump sembra al momento l’unica via per fermare la guerra. Ecco cosa c’è sul tavolo dei negoziati. Il punto di Emanuele Rossi

A due anni dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha aperto l’attuale stagione di guerra e ridefinito gli equilibri di sicurezza in Medio Oriente, il conflitto entra in una fase decisiva. Dopo mesi di stallo militare, la dimensione negoziale torna al centro. Il “20 Point Plan” proposto dal presidente Donald Trump è oggi la principale piattaforma di discussione tra Israele, Hamas e gli attori regionali coinvolti nella mediazione. Gli Stati Uniti, insieme a Qatar, Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Emirati e Giordania, puntano a ottenere un cessate il fuoco immediato e l’avvio di un processo politico che possa garantire la fine della guerra e una nuova governance per Gaza.
La struttura del piano e le incognite di Hamas
Il piano Trump, concepito per essere implementato in tempi rapidi, prevede un cessate il fuoco immediato e il rilascio entro 72 ore di tutti gli ostaggi israeliani — vivi o deceduti — rapiti durante l’attacco del 7 ottobre, in cambio della liberazione di circa 2.000 prigionieri palestinesi, inclusi tutti i detenuti donne e bambini, oltre ai prigionieri condannati all’ergastolo. Per ogni ostaggio israeliano deceduto, Israele restituirebbe le spoglie di 15 palestinesi.
Dopo questa fase, Israele ritirerebbe gradualmente le proprie truppe, mantenendo però una zona cuscinetto di sicurezza perimetrale sotto controllo dell’IDF. La gestione amministrativa della Striscia verrebbe affidata a una commissione di tecnocrati palestinesi, sotto la supervisione di un “Consiglio della Pace” internazionale. L’obiettivo: creare una transizione che escluda Hamas dalla gestione diretta del potere, ma consenta una stabilizzazione progressiva sotto controllo multilaterale.
La risposta di Hamas, arrivata venerdì scorso — poche ore prima della scadenza fissata da Trump — rappresenta una parziale apertura. Il movimento islamista ha approvato la sezione del piano relativa al rilascio degli ostaggi, ma ha evitato di affrontare le parti più delicate: il disarmo delle milizie, la smilitarizzazione della Striscia e la presenza di una forza internazionale di sicurezza. La leadership di Hamas ha ribadito la disponibilità a cedere l’amministrazione della Striscia a un comitato di tecnocrati palestinesi, ma senza rinunciare all’influenza politica e militare. Alcuni comandanti sul campo hanno già espresso contrarietà, giudicando il piano una “resa inaccettabile”. È uno dei nodi: Hamas non è un monolite, ha al suo interno sfumature di visioni, dalle più pragmatiche a quelle ideologizziate.
Le dinamiche politiche israeliane
Da parte israeliana, il governo di Benjamin Netanyahu ha accolto con cautela la proposta. Pur dichiarandosi pronto a implementare la “fase uno” — quella relativa al rilascio degli ostaggi — Israele non ha abbandonato la linea rossa del disarmo completo di Hamas. Netanyahu si trova a dover bilanciare la pressione americana e quella interna: da un lato i partner ultranazionalisti che minacciano di lasciare la coalizione, dall’altro un’opposizione disposta a sostenere un accordo pur di chiudere la guerra e riportare a casa i prigionieri. L’equilibrio del governo, e dunque la presa sul potere di Netanyahu, è un altro dei nodi.
Nelle ultime ore, Israele ha annunciato la sospensione temporanea dei bombardamenti su Gaza City per consentire le operazioni di rilascio e ha confermato la disponibilità a rispettare la “linea gialla” — la posizione di partenza dell’IDF prima dell’offensiva di agosto — come limite del ritiro iniziale. Tuttavia, il primo ministro non ha rinunciato all’obiettivo strategico di eliminare la capacità militare di Hamas.
La dimensione regionale e il ruolo degli Stati Uniti
Trump ha accolto con ottimismo la risposta di Hamas, definendola “un passo verso la pace in Medio Oriente”. Ha pubblicamente ringraziato Qatar, Egitto e Turchia per la mediazione e ha spinto per un’attuazione immediata del piano. In un video dall’Oval Office ha sostenuto che “siamo molto vicini alla pace” e che “tutti saranno trattati in modo equo”. Al contempo, ha messo in guardia entrambe le parti: “Hamas deve muoversi in fretta, o l’accordo salterà”.
Le delegazioni israeliana e palestinese, pur non incontrandosi direttamente, partecipano ai colloqui con la mediazione di Qatar ed Egitto. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato che “il 90% del lavoro è completato” e che l’obiettivo immediato è finalizzare gli aspetti logistici dello scambio di prigionieri e ostaggi. Tuttavia, ha ammonito che “non si può costruire una nuova governance a Gaza in tre giorni”.
Una cornice in evoluzione
Restano divergenze significative: Hamas chiede che il rilascio degli ostaggi coincida con la fine permanente della guerra, mentre Israele pretende garanzie sul disarmo totale del movimento. I mediatori arabi condizionano la loro partecipazione a un chiaro impegno israeliano verso una soluzione politica che includa l’Autorità Palestinese e, a lungo termine, un percorso verso i due Stati. Gli Stati Uniti cercano di mantenere il fragile equilibrio tra le richieste di sicurezza israeliane e le aspettative arabe.
Sul piano geopolitico più ampio, il piano Trump si inserisce in un momento di ridefinizione degli equilibri regionali. Mosca ha espresso un raro sostegno pubblico all’iniziativa, con Vladimir Putin che ha definito la proposta americana “un passo utile verso la stabilità”. Pechino, attraverso il Ministero degli Esteri, ha accolto con favore ogni misura volta a “fermare le ostilità e promuovere un cessate il fuoco duraturo”, mantenendo però una posizione di prudente distanza. Nel Golfo, Arabia Saudita, Emirati e Qatar sostengono l’attuazione del piano come strumento per riportare ordine e contenere l’influenza iraniana, ma chiedono che la ricostruzione di Gaza avvenga sotto supervisione araba e con fondi multilaterali.
Nonostante le incertezze, la spinta diplomatica americana segna un punto di svolta. Per Washington, il piano Trump non è solo uno strumento per chiudere il conflitto di Gaza, ma anche un tentativo di rilanciare un ordine regionale fondato sulla cooperazione, il contenimento delle potenze revisioniste e un fragile equilibrio tra gli interessi di Israele, del mondo arabo e delle grandi potenze globali. Ossia, spingere un “Washington Consensus” rinnovato in contenuti e sostanza, in forma pragmatica e rapida.
Cosa aspettarsi
Il piano Trump è il tentativo di trasformare il cessate il fuoco in un processo politico strutturato, volto anche a rimodellare la sicurezza regionale attraverso la soluzione del più annoso e complesso dei dossier aperti. Ma la sua attuazione richiederà compromessi duri da entrambe le parti. Saranno in grado di accettarli? Se fallisse, il rischio potrebbe essere una nuova spirale di violenza. Se riuscisse, potrebbe aprire invece la strada a una nuova architettura di sicurezza mediorientale, con gli Stati Uniti di nuovo al centro della diplomazia regionale.