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Chi vincerà la sfida dei porti nell’Oceano Indiano?

L’arrivo della Russia come player esterno complica i piani di India e Cina. L’Oceano Indiano è adesso il centro di dinamiche geopolitiche che ruotano attorno al controllo dei porti strategici, nodi delle rotte geoeconomiche dell’Indo Pacifico.

L’ultima in ordine di tempo è stata la Russia, entrata a gamba tesa nella competizione per il controllo delle infrastrutture portuali nell’Oceano Indiano, chiave di volta delle strategie indo-pacifiche di Cina e India. Mentre Vladimir Putin era in visita di stato in Cina, accolto con il protocollo formale della “partnership strategica” e senza il calore della cosiddetta “amicizia senza limiti”, il Myanmar annunciava di aver scelto la Russia per costruzione e gestione del porto di Dawei.

La città, dotata anche di un’aeroporto internazionale collegato al mare da strade non eccezionali per efficienza ma funzionali, affaccia nel Mare delle Adamane, porzione orientale dell’Indiano e area di contesa storica indo-cinese. Basta pensare che la giunta al potere a Burma – collegata a più mandati con il Partito/Stato cinese, senza disdegnare però altre relazioni – ha assegnato lo scalo di Sittwe (nell’angolo occidentale del Paese, affacciato sul suo continente indiano) alla India Global Ports e quello di acque profonde di Kyaukpyu a società cinesi. A maggio, dopo che Pechino aveva espresso interesse anche su Dawei, è arrivata la notizia dell’ingresso russo nella partita birmana. Fotografia plastica della ridistribuzione di potere in una competizione che vede un passo indietro gli occidentali – che hanno interrotto le cooperazioni formali con i militari del Myanmar e che altrove faticano a trovare la propria dimensione.

Questo coinvolgimento russo è una delle ragioni per cui la relazione tra Mosca e Pechino è più un allineamento, di carattere strategico anti-occidentale, piuttosto che una forma di reale alleanza e cooperazione. Nell’Oceano Indiano, così come in Asia Centrale o nell’Artico e nel Pacifico, i due Paesi sono in competizione. Ed è una competizione in cui la Cina di Xi Jinping vuole prevalere (e alla Russia potrebbero restare solo briciole). Soprattutto Pechino vuole una presenza totale nell’Indo Pacifico (si vede alle tensioni innescate con le Filippine), perché lo individua come l’ambiente geostrategico di influenza primaria, che non intende condividere con altri attori esterni.

In particolare, Dawei ha un valore eccezionale per la Cina: se collegato agli altri progetti della Belt & Road Initiative (Bri), potrebbe permettere di evitare lo Stretto di Malacca, ambito di influenza talassocratica di New Delhi, e dunque disegnare nuove rotte della globalizzazione lontane dal rivale indiano. Stesso scopo lo può avere Kyaukpyu, migliore per caratteristiche del fondale, connesso via treno alla Cina, e dotato anche di un collegamento energetico tramite un oleodotto, potenzialmente efficace per deterrenza verso l’Eastern command navale indiano. Ma è un porto difficile da sviluppare, e inoltre il doppione russo lungo la stessa costa ne farebbe perdere la singolarità – è questo che teme Pechino, oltre che all’eventualità di creare dipendenze da uno scalo di un competitor, per quanto “amico”.

In un mondo in cui le dipendenze di qualsiasi genere sono sempre più evitate, lo scalo birmano serve anche come alternativa a Gwadar, dove sfocia il China-Pakistan Economic Corridor (CPEC) che rappresenta lo sbocco sull’Indiano proprio della Bri. Il Pakistan, nemico dell’India, è stato per lungo tempo la scelta preferenziale per Pechino, ma anche a causa dell’insicurezza interna (tra gruppi jiadisti e combattenti/autonomisti di vario genere che hanno iniziato a prendere di mira i cinesi) tutto procede con non pochi rallentamenti. Anche la raffineria finanziata dai sauditi per lavorare il greggio che doveva far entrare in Cina tramite Urumqi subisce rallentamenti, sia da Riad e causati dalle condizioni generali (non ultime quelle climatiche subite dall’oleodotto, che hanno già in pratica fatto scartare il progetto). Risultato: il fabbisogno energetico cinese, così come molti dei traffici commerciali, sono ancora dipendenti dallo stretto di Malacca, e dunque da un’area in cui l’India esercita forti capacità di controllo. Un problema per la sovranità della Repubblica popolare.

In questa partita entrano anche altri due elementi. Il primo è Chabahar, scalo iraniano appena davanti Muscate e vicinissimo al confine pakistano, che l’India ha collegato ai suoi interessi anche in chiave anti-cinese – perché i rapporti Pechino-Teheran avrebbero rapidamente spostato in Cina la concessione dello scalo, complicando così il progetto dell’International North-South Transit Corridor che collegherà India e Russia in direzione nord-sud, passando appunto dall’Iran. Il secondo elemento è Ream, scalo in Cambogia in cui la Cina sta costruendo una postazione ibrida, dual-use militare-civile, che servirà appunto a proiettare la propria potenza appena a nord dello Stretto di Malacca, in qualcosa di simile a quanto fatto a Gibuti. Dove Pechino ha piazzato la sua prima base extra-territoriale, non a caso nel luogo che è, ancora, il punto più strategico per le rotte geo-economiche tra Europa e Asia.

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