Approfondimenti

Nuove tensioni a levante tra Giappone e Cina

La scintilla Takaichi, la mossa di Xi e il nuovo equilibrio dell’Asia orientale nell’analisi di Emanuele Rossi

La telefonata tra Donald Trump e Xi Jinping, arrivata su iniziativa cinese in piena crisi diplomatica con il Giappone, ha mostrato quanto l’architettura strategica dell’Asia orientale sia fragile e in movimento. Le due versioni del colloquio — quella di Pechino, centrata sulla “restituzione” di Taiwan come elemento dell’ordine postbellico, e quella americana, che omette completamente la questione — creano un ulteriore livello di complessità in una vicenda iniziata con una dichiarazione della neo‑premier nipponica Sanae Takaichi. Davanti alla Dieta, infatti, la prima ministra aveva evocato l’ipotesi che un’eventuale invasione cinese di Taiwan potesse configurare una minaccia diretta alla sopravvivenza del Giappone, aprendo la porta — almeno in teoria — a una possibile risposta militare. Tokyo è stata investita nelle ultime due settimane da una reazione cinese senza precedenti. “Una grave violazione del diritto internazionale”, così il Partito Comunista Cinese considera l'accaduto, come ha scritto il 21 novembre l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, Fu Cong, in una lettera indirizzata al segretario generale Antonio Guterres. Ed è così che la crisi ha acquisito una dimensione multilaterale: Pechino ha portato la disputa al Palazzo di Vetro, accusando il Giappone di voler “intervenire militarmente” nello Stretto di Taiwan e minacciando l’uso del diritto all’autodifesa previsto dalla Carta ONU.

Tokyo, che osserva gli sviluppi, mentre non ha ancora trovato la lente adatta per decifrare le posizioni di Donald Trump (difficoltà condivisa da diversi altri alleati), ha attivato la diplomazia diretta con Washington. La premier Takaichi ha parlato telefonicamente con Trump subito dopo il suo colloquio con Xi. Mentre la Xinhua sosteneva che Trump avesse detto al leader cinese che gli Stati Uniti “comprendono l’importanza della questione di Taiwan per la Cina”, la prima ministra giapponese ribadiva al presidente americano la centralità dell’alleanza bilaterale, la visione comune di un Indo‑Pacifico libero e aperto — concetto ereditato dalla strategia del compianto Abe Shinzo e traslato come proprio dagli Usa — e la necessità di mantenere coordinata la gestione dei rapporti con la Cina. È anche un modo per confermare che l’asse nippo‑americano resta saldo proprio mentre Pechino tenta di influenzare la postura statunitense sulla questione taiwanese (e sulle alleanze, spingendo Trump a un rapporto diretto con Xi).

Ma la crisi attuale è solo la punta visibile di tensioni molto più profonde — storiche, strategiche, economiche — che spiegano perché la frattura tra Cina e Giappone rischia di essere duratura.

Le parole di Takaichi hanno toccato un nervo scoperto. La Cina ha reagito con una sequenza nota ma intensificata: convocazione dell’ambasciatore giapponese, richiesta di ritrattazione, avvisi di viaggio, cancellazioni dei voli, sospensione delle importazioni di prodotti ittici. Il messaggio è duplice: punire Tokyo in un settore simbolico (il pesce giapponese è al centro dell’immaginario globale, vedere alla voce “sushi”) e segnalare ad altri attori – a cominciare da Taiwan stessa, ma chiaramente il messaggio vale per tutto il resto del mondo che osserva – che la Cina è pronta a usare l’intero arsenale di strumenti, economici per ora, contro chi oltrepassa le sue “linee rosse”. Una risposta tonitruante che intreccia tre dimensioni: la questione taiwanese, considerata da Pechino una vicenda interna e un tema esistenziale; la rivalità storica sino‑giapponese, continuamente riattivata nella narrativa politica del Partito/Stato; e l’uso sistematico della coercizione economica, ormai parte strutturale della politica estera cinese.

Perché tutto è scoppiato così facilmente?

Il rapporto tra Cina e Giappone esplode rapidamente perché si fonda su un’eredità emotiva, identitaria e storica profonda. Per secoli la Cina è stata la potenza egemone dell’Asia; il Giappone, con la modernizzazione Meiji, ha ribaltato questa gerarchia fino all’invasione della Cina tra il 1931 e il 1945. Il trauma di Nanchino rappresenta ancora oggi uno degli elementi più sensibili attorno a cui si struttura una parte rilevante del nazionalismo cinese contemporaneo. In questo quadro, la narrativa ufficiale di Pechino insiste sull’idea che il Giappone non abbia mai realmente fatto i conti con il proprio passato, che le scuse siano state insufficienti o ambigue e che le correnti nazionaliste nipponiche continuino a rendere Tokyo un attore potenzialmente inaffidabile.

Tutto on steroids in vista dell’80º anniversario della fine della Seconda guerra mondiale (che Pechino identifica come “sconfitta del Giappone“): la propaganda cinese ha intensificato infatti i riferimenti alle atrocità commesse dall’esercito imperiale e al ruolo svolto da Pechino nella fondazione dell’ONU, utilizzando la storia come leva politica per criticare il Giappone e cercare di rimodellare l’ordine internazionale. Pechino richiama inoltre con insistenza le dichiarazioni del Cairo e di Potsdam, che secondo la sua interpretazione prevedevano la restituzione di Taiwan alla Cina, nonostante molti governi considerino tali testi dichiarazioni di intenti e non strumenti giuridicamente vincolanti.

In Giappone, invece, la memoria del conflitto è più segmentata e spesso inserita nella cornice della propria identità pacifista post‑bellica. Negli ultimi dieci anni, però, Tokyo ha ripreso una postura più assertiva — e Pechino legge questa rinnovata volontà di creare sicurezza strategica come un possibile ritorno del militarismo nipponico. Questa asimmetria di percezioni amplifica ogni dichiarazione, ogni gesto, trasformando una disputa tecnica in un caso altamente simbolico.

Il fattore Takaichi: la normalizzazione strategica del Giappone

L’arrivo al potere della premier Takaichi è un ulteriore elemento di complessità. La nuova prima ministra è vista come l’erede politica di Abe Shinzo, l’architetto dell’Indo‑Pacifico, ossia colui che ha concettualizzato la regione con il famoso discorso “sulla confluenza dei due mari”, nel 2007, attirando le attenzioni internazionali su quello che la Cina considerava il suo cortile di casa, dove ambiva a un controllo sostanzialmente egemonico. Pechino è consapevole che le parole di Takaichi su Taiwan non sono balzane, ma riflettono un decennio di trasformazione strategica. È per questo non sono particolarmente sorprendenti ed è per questo che la reazione cinese non è frutto di uno shock ma di una postura studiata che attendeva solo un trigger. Tre fattori hanno accelerato tale processo nipponico: l’ascesa cinese e la crescente pressione nel Mar Cinese; la minaccia nordcoreana, con test missilistici, capacità nucleari oggettivamente raggiunte e allineamento idelogico-strategico con Pechino; i dubbi sull’affidabilità americana, acuiti dalle oscillazioni della politica estera statunitense, percepita come isolazionista e transazionale sotto Donald Trump.

La novità sta nel fatto che la premier esplicita un’ipotesi che finora era rimasta in una zona di ambiguità strategica.

La geometria della deterrenza: Taiwan e il Mar Cinese Orientale

Limitarsi a leggere quanto accade come una semplice frizione tra Pechino e Tokyo sarebbe però riduttivo. Oltre al nodo rappresentato da Taiwan, il baricentro strategico della crisi si estende infatti al Mar Cinese, corridoio essenziale tra la Cina continentale e il Pacifico. Quest’area, segnata da dispute marittime vive (su tutto, le isole Senkaku) è attraversata da rotte energetiche cruciali per entrambi i Paesi ed è oggetto di rivendicazioni e attenzioni anche da parte di altri attori regionali e globali. Un ulteriore elemento della crisi riguarda il ruolo dell’alleanza tra Stati Uniti e Giappone. Washington punta da tempo a rafforzare la capacità di Tokyo di contribuire alla deterrenza nello scenario taiwanese, pur cercando di evitare dinamiche che possano innescare un’escalation difficilmente controllabile. Quando Takaichi afferma che un eventuale attacco cinese all’isola rappresenterebbe una minaccia esistenziale per il Giappone, traduce in termini giuridici una valutazione geografica e strategica molto concreta: se Taipei dovesse cadere e Pechino acquisire una proiezione aeronavale più ampia oltre l’isola, l’arcipelago giapponese — in particolare l’area di Okinawa — risulterebbe sensibilmente più vulnerabile. Dal punto di vista di Pechino, però, questa impostazione appare come un tentativo di internazionalizzare la questione taiwanese, trasformarlo ossia da tema interno cinese a dossier di sicurezza regionale e, di fatto, globale (visto il valore di Taiwan in catene di valore come quella dei chip). È un approccio che, per quanto coerente con il dibattito strategico (e non solo giapponese), espone Tokyo a un rischio comunicativo: ogni sfumatura di arretramento potrebbe essere letta come debolezza, mentre un irrigidimento rischierebbe di trascinarla verso scelte operative dalle conseguenze imprevedibili, peraltro in un contesto in cui anche la posizione statunitense mantiene elementi di incertezza.

Il punto interno è che Takaichi, almeno per ora, viene premiata dall’opinione pubblica: gli indici di gradimento crescono, la sua fermezza viene percepita come risposta necessaria alle pressioni cinesi, pur in un Paese ancora diviso sull’idea di difendere militarmente Taiwan. Su queste divisioni gioca la narrazione propagandistica cinese. Il rischio è che la leadership giapponese rimanga “intrappolata” nella propria retorica? Ogni passo indietro verrebbe letto come cedimento a Pechino; ogni passo avanti rischia di trasformare Taiwan da questione “ipotetica” a test concreto della volontà di combattimento giapponese. E se lo avesse fatto apposta, per dimostrare l’aggressività cinese e dunque giustificare le conseguenti misure da adottare?

Cina e Giappone non sono solo rivali: sono economie profondamente interdipendenti. La Cina è il primo partner commerciale del Giappone; Tokyo è un investitore chiave in Cina. Le catene di valore dell’automotive, dell’elettronica e dei semiconduttori attraversano più volte il Mar Cinese in entrambe le direzioni. Il turismo cinese pesa in modo significativo sull’economia giapponese, così come il consumo cinese di prodotti ittici ad alto valore del Giappone. Basterà questo vincolo di interdipendenza per aprire la strada della de-escalation?

Approfondimenti

Cuba guarda alla Cina per risolvere la crisi energetica

Alle prese con blackout sempre più diffusi, L’Avana guarda a Pechino per rinnovare la propria rete elettrica e investire nel solare.

Leggi l'approfondimento
Progetti

Med-Or Talks: intervista a Sua Altezza Reale Principe Turki Al-Faisal

Secondo appuntamento con Med-Or Talks. Ospite Sua Altezza Reale Principe Turki Al-Faisal

Scopri il progetto
Approfondimenti

La diplomazia di Pechino, dal vertice SCO a Tianjin alla dialettica con Bruxelles

Dal vertice della SCO in Cina alle richieste di Von der Leyen a Pechino per una mediazione diplomatica nel conflitto in Ucraina. Dinamiche evolutive della diplomazia globale cinese. Il punto di vista di Giorgio Cella

Leggi l'approfondimento