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COP27: risultati in chiaroscuro della conferenza sul clima

Si è chiusa in Egitto la Conferenza della Nazioni Unite sul Clima. Prese alcune decisioni storiche, resta alta la preoccupazione per l’aumento delle temperature del pianeta

rafapress / Shutterstock.com

La ventisettesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si è svolta al Cairo tra il 6 e il 18 novembre, ha visto la presenza dei rappresentati di quasi 200 paesi e dei relativi ministri dell’energia, di organizzazioni intragovernative e di Ong. Il summit di quest’anno ha assunto una rilevanza particolare essendosi svolto proprio in corrispondenza di un periodo di grave emergenza energetica globale, nel quale abbiamo assistito ad un maggiore consumo di idrocarburi, insieme ad un rallentamento delle iniziative destinate a contenere le emissioni di Co2. Tali tendenze, già presenti nel periodo post-pandemico, sono state aggravate dall’incremento della dinamica inflattiva in corso da più di un anno, soprattutto dall’invasione russa dell’Ucraina.

Dopo gli intensi negoziati tra i rappresentanti dei paesi presenti alla Conferenza, la presidenza egiziana della COP27 ha reso pubblico il testo finale dell’accordo. Il punto centrale dell’intesa riguarda l’istituzione di un fondo per le perdite e i danni (loss and damage) derivanti dai fenomeni che alterano l’ambiente naturale[1]; dovuti, secondo la definizione della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sia a eventi estremi ad insorgenza improvvisa, quali cicloni e inondazioni, sia a eventi di tipo strutturale, caratterizzati da uno sviluppo graduale, come l’arretramento dei ghiacciai o l’innalzamento del livello dei mari. Il fondo è destinato ai paesi “particolarmente vulnerabili” colpiti da tali fenomeni. Ne sono un esempio i paesi dell’Asia meridionale che, interessati fortemente sia da eventi improvvisi (si pensi all’alluvione che ha colpito il Pakistan la scorsa estate), che da cambiamenti di medio e lungo periodo, rappresentano una delle aree del mondo più soggette a sconvolgimenti che rischiano di avere un effetto irreversibile. Come è spiegato nella decisione finale della Conferenza, “la crescente gravità, frequenza e portata dei fenomeni in oggetto e dei danni a loro associati, si traduce in devastanti conseguenze di tipo economico e non solo per i paesi colpiti”. Inoltre, “tali fenomeni comportano lo sfollamento forzato, impatti immensi sul patrimonio culturale, sulla mobilità, nonché sui mezzi di sussistenza delle comunità locali”[2]. A destare preoccupazione, dunque, non sono solo gli effetti diretti delle alterazioni dell’ambiente dei paesi individuati dalla Conferenza, ma anche quelli indiretti, che hanno una portata egualmente grave.

L’altro tema che ha contraddistinto i lavori della Conferenza è la transizione energetica, resa ancor più difficile dalla crisi economica in corso. Un processo che, in quanto estremamente graduale, vede la necessità di ricorrere alle fonti energetiche tradizionali: il gas su tutte, date le sue basse emissioni climalteranti, ma anche il petrolio, da cui è ancora estremamente difficile affrancarsi. A questo proposito, è importante notare che la Conferenza appena conclusasi è la prima a cui hanno preso parte i rappresentanti delle maggiori aziende produttrici di idrocarburi sul panorama mondiale[3]. Una decisione, quella di permetterne la partecipazione, dettata dalla consapevolezza che, nel processo di transizione energetica, sembra difficile, almeno nell’immediato, prescindere dall’utilizzo delle fonti fossili e dell’energia atomica.

A questo riguardo, è interessante notare l’esempio dei paesi del Golfo, tra i primi produttori al mondo di idrocarburi, ma anche all’avanguardia nella realizzazione di impianti solari ed eolici, come si evince dalle ambiziose strategie adottate per la transizione dei propri sistemi economici ed energetici. Ciò avviene nella doppia ottica del futuro esaurimento delle fonti fossili e della convenienza, climatica ed economica, del passaggio a fonti energetiche a basso impatto ambientale.

Ci sembra dunque di poter affermare che tali ambiziosi obiettivi potranno essere perseguiti solo se gli stati che più pesano sui cambiamenti climatici collaboreranno strettamente in un’ottica di riduzione dell’inquinamento e di diversificazione dei propri consumi. Una parte consistente delle emissioni viene infatti da tre paesi: Stati Uniti, Cina e India.

L’ampia competizione tra Stati Uniti e Cina potrà avere un ruolo decisivo sia nel processo di riduzione delle emissioni, sia nella transizione, resa difficile dall’incremento post-pandemico dei consumi e dalle crisi dei mercati energetici globali, e aggravata dall’invasione dell’Ucraina. Lo sviluppo delle tecnologie rinnovabili ha subito una decisa battuta d’arresto con lo scoppio della pandemia nel 2020; successivamente, si è verificato il ritorno a consumi superiori ai livelli del 2019. Ecco che la collaborazione tra i due attori che più concorrono alle emissioni di Co2 appare imprescindibile per raggiungere i target posti dall’Agenda 2030 e ribaditi alla COP27. Ne sono un esempio i colloqui avvenuti tra l’inviato speciale per il clima americano, John Kerry, e il suo omologo cinese, Xie Zhenhua. I due hanno infatti sottolineato la collaborazione nell’aiuto agli stati più fragili per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici, che è alla base del fondo “loss and damage”. La cooperazione tra Stati Uniti e Cina sulla necessità di ridurre le emissioni era stata, inoltre, fondamentale ad istituire gli accordi di Parigi nel 2015[4]. Appare dunque imprescindibile a raggiungere gli obiettivi futuri, sfida ancor più ardua data la congiuntura economica negativa. Da segnalare la netta presa di posizione del presidente Biden in merito all’impegno che proprio gli Stati Uniti intendono portare avanti nei prossimi anni per il raggiungimento degli obiettivi previsti.

Un discorso analogo può essere fatto per l’India, terzo paese al mondo per milioni di tonnellate di Co2 emesse ogni anno, senza il cui apporto appare impossibile invertire la tendenza in corso. Nuova Delhi ha visto una crescita sostanziale delle tecnologie che generano energie rinnovabili; pari al 3% tra il 2019 e il 2021, come riporta il Centre for Science and Environment della capitale indiana. Non sembra però sufficiente per avere un impatto rilevante nella riduzione delle emissioni climalteranti. È di settembre, infatti, la notizia che l’India punta a espandere di un quarto il ruolo del carbone nel proprio mix energetico, da qui al 2030[5]. Carbone che, peraltro, costituisce la prima fonte di approvvigionamento energetico per l’India. Una scelta che va in controtendenza rispetto agli obiettivi di medio e lungo periodo per limitare i danni delle alterazioni climatiche.

Infine, i delegati dei paesi presenti alla COP hanno stabilito di mantenere il target stabilito dagli Accordi di Parigi, ovvero il contenimento dell’aumento delle temperature a 1,5 c° sino al 2030[6]. Nonostante questo sia stato percepito come una sconfitta, difficilmente si sarebbe potuto fare diversamente. Come detto, le crisi economica ed energetica in corso rendono i processi di avvicinamento agli obiettivi fissati nel 2015 ancor più complicati. Ecco, dunque, che l’istituzione del fondo per le perdite e i danni derivanti dal cambiamento climatico e la presa di coscienza dell’impossibilità di prescindere, se non altro nell’immediato, dagli idrocarburi sembrano trasmettere un quadro realistico delle iniziative di tutela ambientale e di transizione energetica.


[1] https://www.reuters.com/business/cop/countries-agree-loss-damage-fund-final-cop27-deal-elusive-2022-11-20/

[2] https://unfccc.int/sites/default/files/resource/Decisions_1CMA4_1COP27.pdf

[3] https://www.ft.com/content/a29c1204-70cf-46c1-b266-780788bfa048

[4] https://www.energyconnects.com/news/renewables/2022/november/china-us-resume-climate-work-in-latest-sign-of-better-relations/

[5] https://economictimes.indiatimes.com/industry/energy/power/india-may-boost-coal-power-fleet-25-by-2030-amid-rising-demand/articleshow/94394642.cms

[6] https://unfccc.int/news/cop27-reaches-breakthrough-agreement-on-new-loss-and-damage-fund-for-vulnerable-countries

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