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Così l’Indo-Pacifico si prepara al ritorno di Trump

Il Trump 2.0 rimodellerà la politica estera americana: nell’Indo-Pacifico si assisterà a cambiamenti e conferme. Il punto di vista di Emanuele Rossi

La rielezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti rappresenta un evento di portata globale, destinato a ricalibrare la politica estera americana in chiave più transazionale e pragmatica. Il commander-in-Chief è ancora il capo di Stato più importante al mondo, e ciò significa che la nuova morfologia della politica estera americana avrà impatto su ogni dossier della politica internazionale. Il primo tra questi dossier in cui si verificherà un qualche genere di “Trump Effect” è l’Indo-Pacifico, enorme bacino geostrategico da cui passano i destini del mondo, dove gli Stati Uniti hanno consolidato il loro impegno negli ultimi anni, con un focus sul contenimento dell’influenza cinese e la costruzione di un sistema di alleanze che va sotto la definizione di latticework approach”.

Malgrado l’approccio unico di Trump, è comunque possibile prevedere – data l’importanza della posta in ballo – che alcuni obiettivi strategici rimarranno costanti. Tra questi, la difesa delle linee di comunicazione marittima, la gestione delle dispute nel Mar Cinese e il mantenimento di una presenza sia militare che geoeconomica attraverso alleanze e partnership regionali a capacità globale (per esempio quella con Giappone e India). Tuttavia, è possibile che tutto questo possa avere dinamiche meno multilateraliste rispetto alla precedente amministrazione, più incentrate sul bilanciamento transazionale dei rapporti.

Ciò che è certo è che anche con Trump la Cina continuerà ad essere il fulcro della politica estera americana, e quindi sarà uno dei centri anche nell’Indo-Pacifico. L’approccio di Trump potrebbe essere caratterizzato da una hard power diplomacy”, che si esprime attraverso l’uso estensivo di tariffe commerciali, restrizioni all’accesso dei capitali cinesi e sanzioni mirate, in un tentativo di limitare la capacità economica di Pechino e rendere la concorrenza del colosso asiatico più gestibile (e per certi versi più inquadrabile nel sistema internazionale di concorrenza regolato dal WTO). La nomina di figure note per posizioni anti-cinesi alla guida dei dipartimenti di Stato e Commercio, e del Consiglio di Sicurezza nazionale, potrebbe intensificare questa postura, consolidando una visione basata su un’idea di sicurezza economica strettamente legata a quella nazionale. Questo quadro, nonostante una linea di continuità con l’amministrazione Biden, potrebbe creare tensioni aggiuntive, spingendo Pechino a scelte di carattere commerciale e geopolitico ben precise, e portando la Cina a spingere sulla narrazione strategica anti-americana e, in definitiva, anti-occidentale.

Sebbene è possibile che Trump spinga Xi Jinping a incontri e contrattazioni, è difficile pensare che esse possano portare a un appeasement generale tra le due potenze principali di questo sistema multipolare in costruzione. Per questo è più probabile prevedere che in un potenziale inasprimento del confronto (frutto del perdurare delle tensioni) finiscano coinvolti anche gli alleati americani, a cominciare dagli asiatici – anche se potenzialmente anche l’Europa potrebbe subirne direttamente gli effetti, considerato il desiderio strategico del Partito/Stato di rompere l’equilibrio transatlantico. Il Giappone, come principale alleato degli Stati Uniti nella regione, si troverà probabilmente sotto una doppia pressione crescente: da un lato, la Cina potrebbe usarlo come sfogo, oppure potrebbe avviare un corteggiamento per produrre una rottura dell’asse Tokyo-Washington (qualcosa di simile è già in atto d’altronde con il dialogo trilaterale con cui Pechino ha coinvolto anche Seul in un formato simile ai “Camp David Principles”); dall’altro, la presidenza Trump potrebbe mettere l’Arcipelago sotto stress per aumentare il proprio contributo alla sicurezza regionale.

Trump, in linea con la sua filosofia “America First”, potrebbe richiedere a Tokyo di incrementare la spesa per la difesa e rinegoziare accordi commerciali, mettendo in primo piano settori sensibili come la tecnologia avanzata e l’industria manifatturiera. Il quadro generale potrebbe spingere il Giappone verso una postura più autonoma, rafforzando i legami con gli altri membri del Quad (India e Australia per esempio), oppure promuovendo accordi bilaterali con i Paesi del Sud-est asiatico (già in atto questo genere di movimento con Vietnam e Filippine, in parte con l’Indonesia), in modo da bilanciare la dipendenza dagli Stati Uniti e assicurare una maggiore resilienza strategica. Una dinamica simile riguarda anche Manila. Le Filippine rappresentano uno dei punti più critici nelle dispute territoriali del Mar Cinese, e Manila ha recentemente adottato misure legislative per rafforzare il proprio controllo sulle acque territoriali davanti alle pressioni di law enforcement cinesi. Il ritorno di Trump potrebbe portare gli Stati Uniti a enfatizzare un approccio bilaterale con questo genere di alleati, con un forte focus sulla sicurezza nazionale autonoma. L’America potrebbe sostenere l’aumento delle capacità locali in cambio di un maggiore impegno delle Filippine nel contrastare l’influenza cinese. Non a caso le Filippine sono uno dei due Paesi indo-pacifici che hanno già annunciato la volontà di rafforzare il proprio arsenale, soprattutto quello missilistico, attraverso un’importante commessa di lanciatori a medio-raggio Typhon – che gli Usa avevano dispiegato sul territorio filippino in aprile per un’esercitazione, non senza le proteste cinesi.

L’altro Paese che si è già mosso in questo senso è Taiwan. Taipei, che rimane una componente cruciale per la stabilità della regione, ha già fatto sapere di essere disposto a un rafforzamento robusto del proprio dispositivo militare (si ventila l’ipotesi di una richiesta per gli F-35 che sarebbe un dossier geopolitico di enorme importanza anche per Washington). La Repubblica di Cina è consapevole che l’approccio di Trump potrebbe portare a un ridimensionamento del supporto basato su valori democratici in favore di interessi economici e militari più concreti. Taipei potrebbe essere chiamata anche a intensificare gli investimenti nelle industrie tech statunitensi, in cambio di garanzie per la sicurezza. Il ritorno a un approccio transazionale renderà meno prevedibile l’assistenza americana, spingendo a intensificare la cooperazione con altre nazioni della regione per evitare di dipendere unicamente dagli Stati Uniti. Tuttavia, l’imprevedibilità delle dichiarazioni di Trump potrebbe minare l’equilibrio diplomatico già delicato con Pechino, creando una situazione di vulnerabilità per l’isola. Inoltre, un eventuale accordo diretto tra Washington e Pechino sulla questione taiwanese non è da escludere, magari come parte di un ri-bilanciamento tra Usa e Cina (vista anche la volontà di Trump di essere esterno a questioni d’attrito) e potrebbe rappresentare una sfida per le attuali dinamiche dell’intera sicurezza regionale.

Sicurezza che potrebbe (con toni e dinamiche simili) essere alterata anche nella Penisola Coreana. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca potrebbe portare cambiamenti significativi nelle relazioni con la Corea del Sud e la Corea del Nord. Con Seul, Trump potrebbe riprendere la linea del “cost-sharing” nella difesa, chiedendo un contributo finanziario più alto per il mantenimento delle truppe statunitensi e spingendo, al contempo, la Corea del Sud verso una maggiore autosufficienza militare. Questo approccio potrebbe creare tensioni e costringere il governo sudcoreano a ridefinire la propria strategia di difesa, magari intaccando equilibri interni legati alla distribuzione della spesa pubblica (e dunque del conseguente consenso politico della presidenza), nonché meccanismi di cooperazione regionale (con Seul che dovrebbe diventare maggiormente assertiva, uscendo dalla comfort zone). Anche perché Trump potrebbe optare per una nuova ondata di diplomazia diretta con Kim Jong-un, tentando di stabilire un altro ciclo di negoziati.

La creazione ideale del CRINK (di cui tre Paesi sono componenti attivi nell’Indo-Pacifico, sebbene la Russia in misura ancora meno assertiva che altrove) delinea un contesto strategico iper-complesso, con Pyongyang che ha sviluppato ulteriormente il proprio arsenale nucleare e ha stretto legami operativi con la Russia, partecipando di fatto alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina. Questa evoluzione rende meno probabile che Kim accetti concessioni significative, mentre è probabile che sfrutti un eventuale dialogo per consolidare la propria posizione senza compromessi sostanziali. Il rischio è che la Corea del Nord cerchi di trarre vantaggio dall’approccio transazionale di Trump per ottenere concessioni senza garantire risultati concreti in termini di stabilità, e potrebbe mettere in difficolta Seul – e l’allineamento di Seul e Tokyo con gli interessi occidentali sul fronte ucraino, dunque Nato.

Chi dei giganti indo-pacifici resta centrale, consapevole del proprio ruolo e potenziale vincitore con qualsiasi risultato fosse uscito dalle urne di USA2024, è l’India. È indubbio che, a Washington, New Delhi goda di un sostegno bipartisan. Narendra Modi è un leader apprezzato da Trump (come lo è stato da Joe Biden in precedenza), alla guida di un Paese che ha molto interesse a intensificare le relazioni con gli Stati Uniti, pur mantenendo la sua posizione di multi-allineamento. La presenza di Trump alla Casa Bianca potrebbe solo in parte richiedere di rimodellare le relazioni con la Russia, anche perché nel bilanciamento della coppia Mosca-Pechino il ruolo indiano con i russi non è certo malvisto dagli americani. Nell’ottica generale, l’amministrazione Trump proverà a sfruttare la volontà indiana di sganciarsi dalle eccessive dipendenze russe nel campo della difesa ed energetico; settori dove c’è ampio spazio per mutualità.

In definitiva, l’effetto Trump nel contesto indo-pacifico si prospetta come un ritorno a una politica estera più pragmatica e orientata agli interessi di Washington (siano essi meramente economici o più complesse questioni di carattere anche geopolitico). Questo cambiamento comporterà per gli alleati una sfida importante: dovranno confrontarsi con richieste di contributi economici diretti in cambio del supporto militare (e politico) e dovranno bilanciare l’autonomia strategica con la necessità di mantenere forti legami con Washington. La competizione assoluta con la Cina rimarrà un asse portante, ma l’approccio americano sarà meno prevedibile, orientato verso obiettivi specifici e meno propenso a sostenere ampi compromessi multilaterali. In un simile scenario, l’Indo-Pacifico potrebbe vedere una più rapida multi-polarizzazione con il rischio di una frammentazione delle partnership, mentre gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza ma con un impegno condizionato agli interessi nazionali diretti.

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