Dal vertice della NATO a L’Aja all’ultimatum di Trump a Putin
Il punto di Giorgio Cella sulle dinamiche e le evoluzioni del conflitto in Ucraina

Ogni vertice della NATO lascia il suo segno nella storia dell’Alleanza per aver dedicato maggiore attenzione a una dimensione tematica specifica, per avere raggiunto intese o risultati riguardo una determinata questione di natura diplomatica o militare. Per quanto concerne la prima dimensione, quella diplomatica, l’ultimo summit NATO tenutosi a L’Aja - sullo sfondo degli altalenanti, non prevedibili e a tratti turbolenti rapporti tra Trump e Zelensky - aleggiavano senz’altro auspici e speranze per una ricomposizione di una qualche unità transatlantica nei confronti di Kiev. Il risultato tuttavia non ha certamente soddisfatto tali speranze e desiderata, finendo con il fare emergere, di nuovo, le diverse visioni sulla questione ucraina tra le due sponde dell’Atlantico. Al netto di futuri cambi di posizione - l’imprevedibilità e il mutamento di giudizio riguardo i vari dossier di politica estera è ormai un suo tratto caratteristico - il presidente degli Stati Uniti ha fatto intendere come in futuro dovrà essere l’Europa ad accrescere il suo ruolo militare a fianco dell’Ucraina, e come ciò avverrà in un contesto di responsabilità sempre più condivise ove Washington, oltre all’eventuale invio di armi, manterrà le redini della diplomazia nella ricerca di un cessate il fuoco e di un eventuale, successivo, agognato (e a oggi remoto) trattato di pace.
Circa la richiesta pervenuta dal presidente ucraino di fornire a Kiev ennesimi sistemi d’arma, questa volta quelli anti-missilistici Patriot, Trump ha dato un riscontro poco chiaro al summit tenutosi nei Paesi Bassi. L’incertezza del presidente statunitense, hanno riportato alcune agenzie, sarebbe originata questa volta da un controverso parere del ministro della difesa Hegseth riguardo le esigue scorte esistenti di tali sistemi d’arma negli Stati Uniti: lo stesso ministro avrebbe poi bloccato l’invio di tali armamenti a Kiev, armi che, per di più, si trovavano già in territorio polacco. Oltre al presidente, anche altri importanti esponenti dell’amministrazione Trump, come il rappresentante speciale per l’Ucraina, Keith Kellogg, e il segretario di Stato Marco Rubio, non sarebbero stati informati della decisione unilaterale di Hegseth.
Tornando da ultimo al vertice NATO in questione, l’altro milestone per cui verrà ricordato sarà indubbiamente l’accordo che prevede il raggiungimento (entro il 2035) di una spesa comune per i 32 Paesi membri del 5% del PIL per la difesa - il 3.5 dedicato a spese dirette in armamenti, l’1.5 per infrastrutture e cybersecurity. Su tale incremento delle spese militari, si impone però una riflessione chiarificatrice: sebbene questo notevole incremento militare dell’Europa trovi le sue ragioni primarie e più immediate nella causa ucraina - ossia per il sostegno militare nel breve-medio termine a Kiev - tale piano, allo stesso tempo, trascende chiaramente la questione ucraina, essendo di fatto rivolto, sul lungo termine, ad affrontare molteplici sfide sistemiche derivanti da una realtà internazionale sempre più caotica, multipolare, violenta e preda di continue convulsioni geopolitiche. Un sistema internazionale che vede il ritorno sempre più disinvolto e sempre più diffuso di una politica di potenza di tipo imperiale-revanscista e militarista, che sta progressivamente erodendo il costrutto del diritto internazionale e dell’ordine globale post ’89.
In un infinito labirinto di dichiarazioni talvolta disorientanti, Trump negli ultimi giorni è tornato sulla questione dell’assistenza militare a Kiev cambiando una volta ancora valutazione in merito, dando ora luce verde circa l’invio di sistemi di difesa Patriot, dichiarando come essi siano già stati inviati dalla Germania all’Ucraina, in quanto “sono importanti per Kiev”. E’ chiaro come con l’intervento personale decisivo riguardo il tira e molla sulla questione dei sistemi Patriot, Trump abbia voluto altresì mettere una pietra definitiva sul caso Hegseth. I nuovi armamenti inviati a Kiev, ha altresì aggiunto Trump - mantenendo quei toni nazionalistici che lo hanno premiato durante la campagna elettorale - verranno acquistati dalla NATO e pagati quindi con soldi europei, confermando la piena interconnessione oggi esistente tra la crisi ucraina e la questione dell’aumento delle spese militari.
Da ultimo, una riflessione su quello che avrebbe dovuto essere, nella grande attesa mediatica creatasi, un cambio di passo dell’amministrazione Trump nei confronti della Federazione Russa, dopo che il presidente statunitense aveva definito “deludente” (insieme ad altre dichiarazioni dai toni meno diplomatici) il comportamento del leader russo a causa dei continui bombardamenti sulle città ucraine. Tale supposto cambio di policy verso Mosca si è rivelato essere un lasco ultimatum di 50 giorni oltre ai quali, se non si troverà un accordo di risoluzione del conflitto, scatteranno sanzioni secondarie nei confronti di Mosca. L’annunzio di tale ultimatum, inoltre, è stato ridicolizzato da una nota del Cremlino, che lo ha definito “teatrale”. Alla luce di tutto quanto abbiamo analizzato in questa breve analisi - dalle dichiarazioni, alle smentite, ai ripensamenti - appare chiaro, sullo sfondo di questa strana diplomazia, come sussista un legame e una volontà di dialogo del presidente degli Stati Uniti con il Cremlino: un fattore che appare oggi, agli occhi di chi scrive, una premessa prioritaria e inevitabile per comprendere la convulsa cronaca e l’evolversi della situazione sia ucraina, che internazionale. A conferma di ciò, Trump ha rilasciato negli ultimi giorni altre dichiarazioni in questo senso evidenti: la prima nei confronti diretti di Putin, “sono deluso, ma non ho chiuso con lui"; la seconda, ancora più eloquente, circa la posizione della sua amministrazione riguardo il conflitto: “Non sto né con Kiev, né con Mosca, voglio fermare il conflitto”.