Strong Japan, il messaggio di Takaichi e la “nuova età dell’oro” di Tokyo (con Trump)
Se la sfida per Washington è la competizione con la Cina, allora la partita non potrà mai essere vinta senza il Giappone al proprio fianco. Il punto di Emanuele Rossi
 
			
			
			
			La prima visita di Donald Trump in Giappone da quando è tornato alla Casa Bianca ha prodotto immagini e dichiarazioni di forte impatto simbolico. A bordo della portaerei USS George Washington, nella base di Yokosuka, il presidente statunitense e la nuova premier giapponese, Sanae Takaichi, hanno promesso di portare l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone in una “nuova età dell’oro”. Il linguaggio e il contesto scelto — un vascello militare in una delle basi più importanti del Pacifico — hanno reso evidente la direzione strategica del nuovo corso. C’è una consapevolezza di fondo, comune e condivisa a livello internazionale: se la sfida per Washington è la competizione con la Cina, allora la partita non potrà mai essere vinta senza il Giappone al proprio fianco. Sotto quest’ottica, Tokyo è in testa alla classifica degli alleati statunitensi, e con il nuovo governo potrebbe consolidare tale primato.
Takaichi, prima donna premier nella storia giapponese che ha assunto l’incarico la settimana precedente all’arrivo del presidente americano, ha avvertito che i due alleati si trovano di fronte a “un ambiente di sicurezza senza precedenti”. “La pace non può essere preservata con le parole sole”, ha dichiarato, sottolineando la volontà del Giappone di contribuire “ancor più proattivamente alla pace e alla stabilità nella regione”. Sono dichiarazioni ancorate alla sua visione strategica e politica, a cui Trump ha risposto parlando di una “relazione straordinaria, una delle più forti al mondo”.
Un messaggio chiarissimo, a maggior ragione se si considera che con la tappa nipponica Trump anticipava la visita in Corea del Sud, teatro del faccia a faccia con il leader cinese, Xi Jinping – un’altra “prima” di questo secondo mandato. L’incontro con Takaichi ha avuto anche una valenza economica, anche in questo caso con senso strategico – e chiaramente da leggere nell’ottica dell’incontro con Xi e della competizione con la Cina. I due leader hanno infatti firmato un accordo sulle terre rare e i minerali critici, impegnandosi nell’impegno comune di ridurre la dipendenza da Pechino, attraverso investimenti congiunti nell’estrazione e nella raffinazione. In questo, è stata prevista anche la creazione di una task force bilaterale per individuare le vulnerabilità nelle catene di approvvigionamento e accelerare la consegna di materiali strategici. Un secondo accordo, di natura più politica, impegna i governi a compiere “ulteriori passi” verso quella “nuova età dell’oro dell’alleanza”. Dimensione meno pratica, ma comunque rappresentativa.
Con la morte di Abe, né Takaichi – divenuta premier in un contesto di profonda crisi interna – né il governo giapponese, che ha dovuto lottare per mesi per ottenere anche un accordo tariffario sbilanciato e che dipende dagli Stati Uniti per la propria sicurezza in un mondo sempre più instabile, potevano permettersi che questo viaggio deragliasse.
L’erede di Abe e la visione di una “Strong Japan”
Anche perché, dietro la retorica celebrativa, l’incontro ha consolidato l’immagine di Takaichi come erede diretta della linea di Shinzo Abe: una visione che intreccia potere economico, capacità di deterrenza e assertività diplomatica. La premier giapponese, definita da Trump “una delle più grandi prime ministre”, ricevendo anche i complimenti per il “grip” nella stretta di mano, ha costruito la propria legittimazione interna proprio su quella continuità. Certo, a differenza di Abe, guida un Partito Liberal Democratico indebolito, privo del tradizionale partner di coalizione Komeito, e per questo deve gestire un quadro politico interno frammentato.
La perdita di Komeito, partito pacifista che per 26 anni ha bilanciato la spinta conservatrice del LDP, segna in effetti la fine di un’era di contenimento politico verso la destra nazionalista. In sua sostituzione, Takaichi ha stretto un’alleanza con l’Japan Innovation Party (Ishin), nato come movimento di centro-destra riformista, ora formazione libertaria favorevole alla revisione costituzionale e al riconoscimento formale delle Forze di Autodifesa come un esercito nazionale. Il risultato è un governo minoritario ma coeso sul piano strategico, libero dai vincoli che per decenni avevano limitato l’ambizione difensiva giapponese. Ossia, un Giappone che può dare sostanza alla riscoperta della dimensione strategica, figlia anche della consapevolezza che ormai l’economia e la politica internazionale sono indissolubilmente intrecciate.
Il nuovo contesto generazionale e strategico
Il mutamento riflette anche un cambio generazionale profondo. Le generazioni più giovani, più distanti dalla memoria diretta della Seconda guerra mondiale, percepiscono oggi le minacce di Cina, Corea del Nord e Russia come elementi esistenziali. L’invasione russa dell’Ucraina e l’instabilità del sistema internazionale hanno accelerato la trasformazione di una società tradizionalmente pacifista in un’opinione pubblica più favorevole alla deterrenza. Takaichi intercetta questo clima, presentandosi come garante della sovranità tecnologica e della sicurezza nazionale.
In politica economica, propone una versione aggiornata dell’Abenomics: meno espansione monetaria, più incentivi fiscali e un piano di stimolo mirato alla produttività e ai salari. La premier mantiene un impegno convinto per la liberalizzazione commerciale — dal Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP) agli accordi con l’Unione Europea — incrocia gli interessi di Trump, pur tuttavia mostrandosi disponibile a non escludere un approccio più assertivo nei confronti degli Stati Uniti se gli interessi nazionali lo richiedessero.
Consequenzialmente, la sicurezza economica si pone al centro della propria agenda strategica, individuando in intelligenza artificiale, semiconduttori, energia, sistemi alimentari e infrastrutture critiche i pilastri della futura resilienza giapponese. Insieme all’investimento sulla difesa, sia essa convenzionale che digitale. Questa impostazione rientra nella logica, ormai condivisa tra le grandi potenze, di “securitizzare” le catene di approvvigionamento e le tecnologie sensibili.
Difesa e diplomazia nell’Indo-Pacifico
D’altronde l’uscita di Komeito permette a Takaichi di disporre ora di maggiore libertà d’azione nel campo della difesa. Il suo governo ha anticipato di un anno l’obiettivo di portare la spesa militare al 2% del PIL e punta ad accelerare i programmi di procurement già avviati. Il focus riguarda la cooperazione industriale dual-use, lo sviluppo di sistemi unmanned, l’impiego dell’AI nelle operazioni militari e la creazione di capacità di deterrenza autonoma. L’obiettivo è costruire un equilibrio tra interoperabilità con gli Stati Uniti (e blocco NATO) e capacità nazionali credibili, in linea con il principio di “autonomia strategica all’interno dell’alleanza” con gli Usa.
Sul piano diplomatico, Takaichi ribadisce l’adesione alla strategia del Free and Open Indo-Pacific (FOIP) lanciata da Abe, il filosofo del “Discorso dei due mari”, rafforzando la cooperazione con i partner regionali, sia quelli nel Quad (Australia, India, Giappone, Stati Uniti) che gli altri. La premier appare consapevole della necessità di evitare tensioni storiche con Cina e Corea del Sud, dichiarando che non visiterà il santuario Yasukuni, gesto che potrebbe essere interpretato come nazionalismo revisionista. Tuttavia, la sua retorica rimane ferma sulla difesa dell’ordine marittimo e sulla libertà di navigazione, ambiti in cui il Giappone si propone come attore stabilizzatore e Pechino come elemento di destabilizzazione – secondo un’agenda del Partito Comunista che si fa sempre più assertiva.
Takaichi si presenta come la custode dell’eredità di Abe: una “Strong Japan” capace di coniugare potenza economica, tecnologia e proiezione internazionale, per far essere Tokyo un player globale non solo economico/finanziario. Ma il contesto globale è oggi più frammentato e competitivo. Il successo della premier dipenderà dalla capacità di tradurre quella visione in risultati concreti: rafforzare la deterrenza nel Pacifico, ridurre le dipendenze critiche, preservare l’alleanza con Washington senza rinunciare all’autonomia di manovra. Sono queste le tre grandi sfide per trasformare la promessa di una “nuova età dell’oro” da slogan politico in architettura geopolitica duratura.
 
	
	 
						 
						