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Demografia e politica: cosa cambia negli Stati Uniti

Come possono influire demografia e nuove generazioni nella corsa per le presidenziali americane? L’opinione di Stefano Marroni

Una delle più importanti ragioni per cui nel 2016 e nel 2020 i bianchi senza una laurea hanno votato per Trump è la paura che finisca l’egemonia bianca: la paura cioè che in un futuro prossimo i bianchi di origine anglosassone possano diventare una minoranza assoluta negli Stati Uniti”. Sul New York Times, poche settimane fa, Thomas B. Edsall ha iniziato con questa affermazione un’analisi per molti versi illuminante sul peso delle varianti demografiche che – assai più della stessa economia – stanno ridisegnando ormai da qualche anno la geografia politica americana, sovvertendo appartenenze consolidate. E impastando insieme un coacervo potenzialmente esplosivo di differenze etnico-culturali e ancora di appartenenze religiose, età, sesso, livello di istruzione e status sociale, che rende ancora più imprevedibile l’esito della corsa alla Casa Bianca, a meno di sei mesi dal voto di novembre.

La sfida tra ottuagenari che nessuno voleva, il duello tra Joe Biden e Donald Trump, è ormai per molti versi la battaglia tra due Americhe che non si riconoscono reciprocamente, e si svolge sullo sfondo di eventi internazionali che per molti versi gli Stati Uniti non sono più in grado di governare, rinfocolando in larghi settori della popolazione una sensazione di insicurezza e insieme il sogno – alimentato dalla nuova destra repubblicana – che la pax americana sia saltata per l’incapacità della leadership democratica. Ma la novità, sostengono i sondaggisti, è che le linee di fattura nella società coincidono in larga misura con le demarcazioni demografiche: una bolla che si è gonfiata negli anni della presidenza di Barack Obama, quando la novità dirompente di un nero insediato allo Studio Ovale ha dato a molti americani bianchi la certificazione plastica di una catastrofe imminente.

Negli Usa si chiamano majority-minority states quelli in cui i bianchi non di origine latino-americana sono già in minoranza. E non sono piccola cosa, visto che nel mazzo ci sono California, New Mexico, Hawaii, Maryland, Texas, Nevada e il distretto di Columbia, ovvero la capitale Washington. In altri undici (Georgia, Florida, New Jersey, New York, Arizona, Mississippi, Louisiana, Alaska, Illinois, Delaware e Virginia) la popolazione bianca è appena sopra il 50 per cento e comunque sotto il 60 per cento. Ma soprattutto, fin dal 2010 sono majority-minority i nuovi nati, al punto che dal 2019 è in maggioranza “non-hispanic white” l’insieme dei bambini residenti negli Stati Uniti. Non è difficile dunque capire perché i demografi prevedono che, salvo novità allo stato attuale improbabili, il sorpasso avverrà con certezza tra il 2041 e il 2046. . E più precisamente che con ogni probabilità nel 2044, tra soli venti anni, gli Usa diventeranno la prima grande società postindustriale al mondo, in cui il gruppo dominante che l’ha fondata e ne ha finora retto le sorti diventerà minoranza.

Sta dunque anche qui, in questa “data-incubo”, la spiegazione del perché larga parte della classe operaia bianca e l’America rurale ancora saldamente a maggioranza bianca – i settori mediamente meno istruiti della popolazione – ha voltato le spalle ai democratici, trovando in Donald Trump il proprio campione. Nel 2016, quando a sorpresa il tycoon di New York sbaragliò prima l’establishment repubblicano e poi di misura prevalse su Hillary Clinton, il messaggio arrivò forte e chiaro agli sconfitti ancora sotto shock. E quando nel 2020 si trattò di scegliere il candidato da opporre a “The Donald”, per la prima volta dal 1984 puntarono su una figura che non si era laureata ad Harvard o Yale, i campus simbolo dell’élites americana. Un presidente che ha messo in cantiere una quantità di misure senza precedenti a sostegno della classe operaia.

I dati dicono che in quattro anni sono stati creati quasi undici milioni di posti di lavoro, di cui quasi 800mila nel settore manifatturiero e oltre settecentomila nelle costruzioni, e che per il 61 per cento delle nuove occupazioni non era richiesto un elevato titolo di studio. Negli stati agricoli del Midwest – da sempre filo repubblicani e pesantemente impoveriti dallo sviluppo tecnologico – il governo ha pompato una gran quantità di risorse, implementando politiche di sostegno al reddito in larga parte finanziate proprio dal prelievo fiscale sul lavoro ad alta qualificazione concentrato negli “stati blu”.

Eppure – ha scritto Paul Krugman sul New York Times – molti elettori rurali sostengono politici che gli raccontano le balle che gli piace sentirsi dire. La narrazione MAGA dipinge città relativamente sicure come New York con le tinte fosche di un inferno dominato dalla criminalità, e l’America rurale non come una vittima della tecnologia ma dell’immigrazione, della cultura woke e del deep state”. In una dinamica che ha reso possibile il miracolo per cui un newyorchese miliardario e figlio di un multimilionario è diventato la voce della classe operaia americana, o meglio ancora – per dirla come David Bossie, uno degli artefici della sua campagna nel 2016 – “un miliardario dal colletto blu”. Che invoca “un bagno di sangue” per eliminare dalla scena la politica corrotta e le élites. Che ha convinto ormai la maggioranza dei repubblicani che le elezioni del 2020 furono truccate. E che ora sostiene che le innumerevoli inchieste giudiziarie che lo riguardano sono in realtà “costruite ad arte per colpire voi: siete voi, il vero bersaglio”: anche se quella che si è appena conclusa a New York con la sua condanna riguarda il tentativo di nascondere all’elettorato, nel 2016, di aver pagato la pornostar Stormy Daniels perché non svelasse i dettagli della loro relazione.

Un’America impoverita, che si sente non ascoltata e non vista, se non addirittura guardata dall’alto in basso da chi ha studiato e vive nei quartieri bene delle grandi città. Chiede insomma riscatto più ancora che posti di lavoro. E, anche al netto delle perplessità diffuse sull’età del presidente, non trova risposte nel riformismo di Biden, che viceversa esprime ormai sempre più le ragioni del ceto medio bianco, attento ai diritti e all’uguaglianza di genere, custode del politicamente coretto, attento a dinamiche di politica internazionale che non scalfiscono il tendenziale isolazionismo della pancia dell’America. È il cosiddetto “diploma divide”, un fenomeno che riguarda in realtà tutte le democrazie occidentali, ma che negli Stati Uniti contribuisce a innescare il terremoto politico che sta spostando a destra l’elettorato popolare saldamente guadagnato alla causa democratica fin dai tempi di Roosevelt, e calamita a sinistra i laureati che popolano i quartieri ricchi sulle due coste e dominano i media e le università.

Così, paradossalmente, la paura della destra di un America non più “bianca, anglosassone e protestante” si intreccia con la costatazione che il partito democratico sarà molto presto majority-minority, ma resta largamente e sproporzionatamente guidato da bianchi che hanno frequentato le università, aprendo un altro fronte di debolezza per Biden. Perché la differenza culturale tra i due gruppi – pro-aborto e LGBTQ+ gli uni, e tendenzialmente più Dio-Patria-Famiglia gli altri – sta scavando un solco culturale anche con un pezzo di elettorato altamente fidelizzato dai democratici, dai tempi delle lotte per i diritti civili degli anni ‘60 e ‘70. Negli ultimi tre anni, anche per questo, il vantaggio dei democratici tra gli afroamericani si è ridotto di 19 punti, e tra i latinos del 15 per cento: una novità che potrebbe esser decisiva negli swing states, che la maggioranza dei sondaggi - a differenza che quattro anni fa – assegna ora a Trump

La demografia – segnalano gli esperti – consegna anche altri elementi di incertezza alla battaglia elettorale. Da un lato per effetto della emigrazione interna, che mitiga il rosso scuro di stati tradizionalmente repubblicani come l’Arizona, il Texas, il Nevada e la Florida per l’afflusso di elettori più liberal in arrivo soprattutto dalla California e da New York. Dall’altro, a causa della polarizzazione che segna l’atteggiamento delle donne e dei giovani, che sembrano destinati a svolgere un ruolo chiave, se non decisivo, nella sfida di novembre.

Tutti i sondaggi dicono che nel gruppo di età tra i 19 e i 29 anni molto è cambiato da quando nel 2020 – con il 60 per cento contro il 36 – i giovani furono determinanti per garantire a Biden quel 4.46 per cento di voti in più a livello nazionale che gli consentì di scalzare Trump. Da anni, i millennials e la generazione Z hanno costituito un salvadanaio sicuro per i democratici e lo sono stati ancora nelle ultime elezioni locali. Ma a novembre la musica potrebbe essere diversa, perché si sceglie tra Biden e Trump, e non per il partito democratico. Ad aprile, in un sondaggio della Nbc, è emerso addirittura che in questa frazione dell’elettorato – da sempre il più liberal della società americana – Trump è avanti 43 a 42. Che cosa è successo? Gli analisti sostengono che a mollare Biden siano soprattutto i giovani maschi, e in particolare quelli neri e latinos. Pesa la frustrazione per l’andamento di un’economia in cui – dicono – chi dà le carte non li tiene in considerazione, ma a far precipitare le cose è stato l’esplodere della rabbia per la politica mediorientale di Biden, a cui nei campus ma anche nelle inner cities – per non dire delle zone a maggioranza musulmana – si rimprovera di non aver voluto o saputo fermare Israele.

A contare però è anche quel che sta emergendo come un ennesimo gender gap, con le donne – tutte, ma in particolare le più giovani – sempre più schierate contro Trump. Le fa mobilitare anzitutto la difesa del diritto all’aborto e in genere il tema delle politiche per la riproduzione, messe nel mirino in molti stati dopo una sentenza della Corte suprema di cui Trump si è assunto il merito. Anche i giovani maschi condividono in genere queste convinzioni, ma non al punto di farne una scelta elettorale. Pesa poi l’economia, perché le donne in genere ottengono migliori risultati scolastici e si riescono a laureare più spesso dei loro coetanei, garantendosi migliori opportunità di lavoro. E infine entra in campo il tema della ripulsa femminile – probabilmente un riflesso a lungo termine del #metoo – per gli atteggiamenti di Trump, che per il 68 per cento delle giovani non rispetta le donne, è causa di imbarazzo per gli Usa all’estero e costituisce “un modello negativo” per l’educazione dei figli maschi.

Per molti loro coetanei, invece, la lotta per l’uguaglianza di genere “si sta trasformando da un movimento per l’eguaglianza delle donne – ha scritto in un recente saggio Richard Reeves, che da anni scandaglia l’universo maschile – in un movimento contro gli uomini, o almeno contro la mascolinità”, di cui Trump è visto in qualche modo come un campione: per metà dei maschi americani, “in questi anni la società sembra voler punire gli uomini solo perché si comportano da uomini”. Nelle ultime settimane, i sondaggi segnalano che Biden sta lentamente riguadagnando quota e, in particolare – azzardano i pollster –, che vincere in Michigan, Pennsylvania e Winsconsin potrebbe bastargli per restare alla Casa Bianca. Ma “se non riguadagnerà questi elettori – ha scritto nei giorni scorsi Aaron Blake sul Washington Post – a novembre la sua sorte sarà segnata”.

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