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Gaza: la fase due del piano di pace è lo scoglio su cui ancorare gli interessi regionali

Tutti hanno guadagno qualcosa da questo accordo, ma nessuno esce vincitore totale. Questo equilibrio è garanzia per un impegno nelle fasi successive del Piano Trump per Gaza? L’analisi di Daniele Ruvinetti

L’accettazione da parte di Israele e Hamas del piano di pace promosso dal presidente Donald Trump per salvare il futuro della Striscia di Gaza e porre subito fine alla guerra, ha segnato una svolta reale nel conflitto israelo-palestinese, aprendo una finestra diplomatica che pochi mesi fa sembrava impensabile. Per la prima volta dopo due anni di guerra totale, i fronti in guerra dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 hanno agito pragmaticamente. Spinti da una combinazione di stanchezza militare, pressione internazionale e necessità politica, hanno accettato di imboccare la via di un percorso di pacificazione. Trump ha colto il momento di debolezza di tutti gli attori in campo, dando un’opportunità a un mondo arabo stanco e indebolito, ma desideroso di un ruolo da protagonista nel futuro delle dinamiche internazionali. Soprattutto, la Casa Bianca è stata in grado di farsi percepire come garante della fiducia reciproca necessaria per sbloccare l’impasse ideologica e il rancore storico che hanno guidato questi due anni di violentissimi combattimenti.

La tregua firmata durante i negoziati di Sharm el Sheikh rappresenta la conclusione di una fase, ma non la fine totale del conflitto. Probabilmente non siamo infatti ancora davanti a un concerto di pace vera (o “pace giusta”). Quella andrà costruita nei passaggi successivi, inclusivi, già accennati nello scheletro del Piano Trump per Gaza, ma certamente da irrobustire — come già d’altronde suggerito da svariati attori arabi coinvolti nei negoziati. La vera partita comincia della cosiddetta “fase due”, che inizia per esempio dal disarmo di Hamas e passa subito dalla definizione di un nuovo assetto politico e di sicurezza per la Striscia di Gaza. È qui che si misurerà la solidità del piano e la capacità delle potenze regionali e internazionali di renderlo sostenibile.

Una gestione puramente esterna di Gaza, modellata su esperienze come quella irachena, sarebbe probabilmente destinata al fallimento. La soluzione dovrà quindi nascere da una combinazione tra legittimità palestinese e garanzie di sicurezza multilaterali, sotto una cornice Onu e/o araba, e comunque sotto il peso politico/diplomatico di Donald Trump. Serve quindi una leadership credibile, capace di unificare le diverse fazioni e di avviare un processo di smilitarizzazione reale. Non basterà la forza: occorrerà una visione politica in grado di ricostruire un tessuto sociale lacerato, restituendo dignità e prospettiva a una popolazione che ha conosciuto solo guerra e assedio.

Qui la posizione di Israele ha un valore centrale: pur avendo ottenuto risultati militari e diplomatici, resta diviso e vulnerabile. L’opinione pubblica è frammentata, e la prospettiva di una forza di sicurezza palestinese autonoma desta sospetti profondi. La sfida, per Tel Aviv, sarà conciliare la necessità di sicurezza con la realtà politica di un processo che non può essere gestito solo da Israele.

Hamas, dal canto suo, esce militarmente decimata ma ancora radicata socialmente. Il disarmo totale è improbabile nel breve periodo, ma un ridimensionamento controllato, accompagnato da incentivi economici e da un nuovo equilibrio politico interno palestinese, è possibile. L’obiettivo realistico, almeno in questa fase, non è cancellare Hamas, ma ridurla a un attore marginale, privato della capacità militare e inserito in un contesto di governance condivisa.

In questo quadro, il ruolo dei mediatori arabi è stato e continuerà a essere decisivo. Egitto, Turchia e Qatar — ognuno per ragioni diverse — hanno agito come garanti e catalizzatori del processo. Tutti hanno ottenuto qualcosa ed è possibile che questa consapevolezza sia un elemento a favore dell’impegno per le fasi successive del Piano.

L’Egitto, per esempio, ha consolidato il proprio status di perno regionale, custode del confine e interlocutore imprescindibile: Il Cairo ha salvato il suo territorio da un esodo palestinese (dalle derive incontrollabili) e può impegnarsi affinché oltre il valico di Rafah cresca prosperità e non violenza. La Turchia ha riconquistato spazio politico e credibilità dopo anni di relazioni difficili con la regione e con il resto del Mediterraneo, riaffermandosi come potenza mediatrice tra Occidente e mondo musulmano. Il Qatar, storico alleato delle forze islamiste, ha spostato la propria postura su un terreno più pragmatico, guadagnando considerazione da Washington e una garanzia di sicurezza senza precedenti.

Questo equilibrio è funzionale e offre a Trump e ai suoi partner la possibilità di riattivare e ampliare il processo di costruzione di un quadro politico e di sicurezza regionale — avviato con gli Accordi di Abramo. Il piano per Gaza diventa così parte di una strategia più ampia che mira a ridefinire i rapporti tra Israele, i Paesi arabi e l’Occidente, in un momento in cui l’Iran (idealmente nemico) appare indebolito, come i suoi proxy, e le priorità globali tornano a concentrarsi sulla stabilità energetica e commerciale del Mediterraneo Globale.

Se ognuno degli attori coinvolti ha tratto un vantaggio immediato da questa fase, significa che nessuno vince completamente, però tutti guadagnano qualcosa. È questo equilibrio imperfetto – ma sostenibile – a rendere possibile la prosecuzione del processo. Il tavolo di implementazione organizzato giovedì 9 ottobre a Parigi conferma che l’Ue e i big player arabi potrebbero aver colto questa contingenza e potrebbero essere interessati a muoversi sugli step successivi. La sfida è dunque trasformare la tregua in una pace duratura, costruendo istituzioni credibili e sicurezza condivisa. Perché la vera partita, quella che definirà il futuro — non di Gaza ma della regione — si gioca adesso.

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