Hindutva. L’India indivisa
Popolo, religione e politica: la complessità dell’ideologia Hindutva nell'analisi di Ginevra Leganza

Reinvenzione della tradizione. Il groviglio della dottrina Hindutva potrebbe snodarsi a partire da qui. E cioè dall’idea di un plesso di usi e costumi che certo non sono “tradizioni inventate”, bensì reinventate. Ovvero riscritte, ricostruite, pescando dalla fluidità della tradizione in un blocco quanto più rigido. L’Hindutva – traducibile all’incirca con il termine “Induità” – è perciò un filo rosso che collega Vinayak Damodar Savarkar, il suo teorico novecentesco, alla compagine di governo attuale; è un filo che nondimeno traccia i confini di una nazione, l’India, che s’immaginerebbe indivisa. Hindutva tiene insieme passato e presente; confini reali e soglie immaginali; storie e geografie del mondo fisico e politico.
Nel maggio del 2023 il nuovo edificio del Parlamento indiano, inaugurato a ridosso dello storico Rajpath a Nuova Delhi, ospitò al suo interno una mappa-murale raffigurante l’India com’era. E cioè l’India espansa. Sconfinata sino a territori e paesi limitrofi: Pakistan, Bangladesh, Nepal, Bhutan, Sri Lanka, Myanmar, Tibet (in hindi: Akhand Bharat). Insomma l’India che nelle rivendicazioni di Savarkar, e nelle tensioni del governo di Narendra Modi, avrebbe dovuto essere tal quale la sagoma dell’impero Maurya (322 a.C. – 185 a.C.); e che, come l’impero Maurya, esigerebbe ancora un governo orientato al popolo (Bharatiya Janata Party, BJP, il partito di maggioranza, si traduce alla lettera: “il partito del Popolo Indiano”). Ed è probabilmente il popolo il cuore stesso del concetto di Hindutva, complesso e stratificato. Il popolo che si ritrova. Il popolo che si reinventa. Il popolo che, sotto svariate luci e intrinseche contraddizioni, si riporta ai vertici della società indiana.
Hindutva, come tutto quanto attiene all’idea di “popolo”, è una storia essenzialmente novecentesca. I cui echi risuonano ancora.
Origini di Hindutva: in principio fu Savarkar
Studiava giurisprudenza a Londra quando, nel 1908, Vinayak Damodar Savarkar scrisse il suo The Indian War of Indipendence, in occasione del cinquantesimo anniversario dei moti indiani del 1857. Dopo appena due anni, il padre spirituale dell’Hindutva fu arrestato per sovversione e incitamento alla guerra, rimandato in India per il processo, da lì condannato per il concorso nell’omicidio di un magistrato distrettuale britannico, e da ultimo confinato alle Isole Andamane, per la detenzione a vita. Savarkar, riportato in India nel 1921 e rilasciato nel 1924, redasse negli anni di detenzione il saggio Essentials of Hindutva (1923): cardine dell’Induità per come andrà sviluppandosi nei decenni a venire, sino alle sue sfumature odierne. Residente a Ratnagiri, si unì nel 1937 a Hindu Mahasbha, un piccolo partito nato contro la macellazione delle vacche – altresì noto come Assemblea Induista Pan-indiana, di cui fu membro l’assassino di Gandhi, Nathurame Godse – in difesa delle rivendicazioni religiose e culturali sui musulmani. Egli stesso, implicato nell’assassinio del Mahatma, fu poi assolto per insufficienza di prove.
La complessità del termine da lui coniato si specchia quindi, in prima battuta, nella sua biografia. Nella storia di un uomo la cui ideologia politica mirava a ripensare l’India come stato indù e a ripensare l’Induismo come suo fondamento – benché Savarkar fosse ateo e includesse nell’Hindutva tutte le “religioni indiane” (sikhismo, giainismo, buddhismo).
Entrando nel merito della dottrina, per Savarkar gli indù non erano semplicemente i cittadini dello stato uniti da vincoli d’amore verso la patria, ma anche gli indiani – in senso stretto – uniti da vincoli di sangue: punto cruciale, secondo la critica, che del concetto di Hindutva enfatizza la sensualità. E a maggior ragione, considerato il solo sangue, l’uomo-hindu si sarebbe potuto quindi estendere a musulmani e cristiani, etnicamente contaminati. I quali, tuttavia, sarebbero stati divisi dal suolo. O meglio, dalla “terra santa” che, insieme al sangue, costituisce l’altra metà di Hindutva. Se per gli uni la terra è infatti il subcontinente indiano, per gli altri è l’Arabia o la Palestina: lande lontane che presuppongono l’apostasia, per islamici e cristiani, quale unica via per essere inglobati, e l’induismo quale l’epitome confessionale della nazione indiana.
Nell’epigrafe del suo saggio Savarkar definisce, indirettamente, il concetto di Hindutva: “Hindu – scrive riferendosi al subcontinente col suo nome in sanscrito – è l’uomo che considera questa terra di Bharatvarsha dall’Indo ai mari, come la sua Terra-Patria, così come la sua Terra Santa che è la terra-culla della sua religione”. L’uomo Hindu è perciò il fuoco da cui diramano i raggi: l’uomo che, moltiplicandosi, diventa “popolo”.
Nel XX secolo, a cavallo dell’indipendenza del 1947, furono diversi i movimenti-incubatori di “popolo” che si contesero lo spazio politico. Forze tradizionaliste, revivaliste, di riforma sociale da cui promanarono non solo l’Hindu Mahasabha ma anche il più rilevante Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS): l’organizzazione nazionale di aiuto-aiuto, paramilitare e maschile, incaricata di formare culturalmente e fisicamente gli uomini, dall’adolescenza alla vecchiaia. L’RSS divenne presto il cuore strategico dell’Hindutva, forte di movimenti correlati e di una sua propaggine femminile. Comune denominatore dei movimenti dell’Induità era l’impegno di riportare l’induismo alle ancestrali radici vediche (preoccupazione già viva nel secolo precedente e vissuta, tra gli altri, dal movimento Arya Samaj, attivo nell’arginare, tra le caste oppresse, l’abbandono dell’induismo in favore dell’Islam).
È in questa fucina novecentesca che si forgia, nel corso dei decenni, l’arsenale ideologico dell’attuale Partito del Popolo Indiano. Il BJP di Modi, creato nel 1980, di cui il Bharatiya Jan Sangh (fondato nel 1951) fu in qualche modo il progenitore, essendosi opposto al laicismo liberale dell’Indian National Congress, al suo filosovietismo, alle concessioni ai musulmani (assai più invisi dei britannici: mera parentesi nella storia) e al neonato Pakistan. Elementi, questi, che concorsero all’assassinio dello stesso Mahatma Gandhi.
L’Hindutva oggi: Narendra Modi, nuove leggi, nuovi templi
Hindutva è perciò un filo rosso che, dal primo Novecento, sale la china dei decenni. Un filo che collega Savarkar a Narendra Modi. Venendo all’India contemporanea, solo poco tempo fa, nel mese di maggio, il primo ministro indiano – e leader del BJP – postava su X la foto del compianto teorico dell’Hindutva. Non una novità, certo, considerando che Modi aveva già in precedenza pubblicato sui suoi social parole di tributo a Savarkar: “A true son of Mother India”, aveva scritto in calce a una sua foto. Sintetizzando così, in 140 caratteri, la dottrina riflessa nell’azione legislativa del governo.
Una legge, in particolare, assurge nel dibattito – e nella polemica – a testimonianza dell’incursione di Hindutva nella società indiana contemporanea. Nel 2019 il Parlamento indiano modificava la Citizenship Act del 1955 offrendo una più rapida via alla cittadinanza indiana per gli immigrati non musulmani provenienti da Afghanistan, Pakistan, Bangladesh. Ovvero dagli stati confinanti. Induisti, sikhisti, buddhisti, jainisti, parsi e cristiani, confluiti in India entro il 31 dicembre 2014 (anno di insediamento del governo Modi), hanno visto in tal senso delimitata l’eventualità d’essere trattati come migranti illegali. La legge, nota come The Citizenship Amendment Act, e implementata nel marzo 2024, ha assunto perciò, per la prima volta, criteri religiosi e geografici stringenti che hanno escluso gruppi perseguitati come gli Hazara e gli Ahmadya, di religione musulmana. E ha così dato prova di una tendenza risospinta dal Novecento. Un vento, comunque, che negli ultimi anni è andato condensandosi, tra proteste, repressioni e nuovi simboli. Accanto alla legge, un altro evento risulta infatti cruciale allorché si parli di Induità (concetto che, per ragioni millenarie e geopolitiche, ha nell’Islam il suo ostacolo esistenziale). È l’erezione del Ram Mandir, nella città nord-orientale di Ayodhya. Un tempio votivo a Ram, atteso da decenni, la cui costruzione inizia il 5 agosto del 2020, con una cerimonia fortemente voluta da Modi.
Il rito di bhūmi pūjana – dai testi vedici – consacra il terreno, conteso da anni, alla dea Bhūmi Devi, per la costruzione di un tempio sorto dalle ceneri della Babri Masjid. La moschea distrutta nel dicembre del 1992 dai militanti di Vishwa Hindu Parishad, RSS e BJP.
Riavvolgendo il nastro, il 6 dicembre del 1992 tutti loro, nell’ottica di un recupero dei siti sacri hindu (occupati dai musulmani), chiamarono a raccolta 150.000 volontari induisti per manifestare simbolicamente e pacificamente. Prescrizione presto disattesa nel momento in cui, dopo poche ore, la moschea costruita nel 1528 non c’era più: spazzata via a mani nude, con picconi o con attrezzi rinvenuti sul posto dai manifestanti. Trentatré anni sono passati, e dopo il giudizio della Corte Suprema che ha assegnato i quasi 3.000 acri a un trust hindu, il tempio – che dovrebbe sorgere nel luogo di nascita del dio Ram oltreché dalle ceneri della moschea – è stato costruito. Sussumendo il senso stesso, assai complesso, dell’Hindutva.
La sua progettazione fu a suo tempo affidata alla pluricentenaria famiglia Sompura che, negli anni, ha seguito la tradizione architettonica Nagara dell’India settentrionale. Eppure il tempio di Ram non ha inteso guardare solo al passato. Esso è centrale non solo per essere il punto di arrivo di un processo durato trent’anni (trent’anni di scontri tra islamici e indù che, in Uttar Pradesh, stato della città di Ayodhya, hanno visto un teatro importante, insieme al Gujarat); ma anche perché ha innestato la "reinvenzione della tradizione" a un progetto statale di lunga gittata. E cioè quello di trasformare Ayodhya (meno di 50.000 abitanti) in un centro di pellegrinaggio con enormi investimenti infrastrutturali – dall’aeroporto internazionale a treni e strade – volti a riposizionare la costruzione del tempio come pietra miliare nella storia dell’India-Hindu.
Sicché s’intende quanto l’erezione del tempio sia molto più di un evento religioso. La trasformazione di un’antica ferita in una nuova origine è la rivendicazione di una nuova normalità hindu, laddove il luogo della nascita di Ram è al tempo stesso il luogo della rinascita indiana. Una rinascita della ridefinizione dello spazio pubblico come espressione dell’identità maggioritaria. Non esattamente laica, bensì hindu-centrica.
L’antica ferita, però, non appare rimarginata se la minoranza musulmana ad Ayodhya – dove la comunità hanafita si riuniva nella moschea Babri – rappresenta il 20 per cento della popolazione. Il tempio di Ram, roccaforte dell’Hindutva, è suo malgrado il luogo fisico in cui oggi si misura la ridotta dell’India pluralista. Un’India giovane ma, forse, già perduta.
L’ambiguità costituzionale di Hindutva
Hindutva è un vento di rivoluzione novecentesca, si diceva. Ma è pure un’India del secolo nuovo. Un’India assai diversa, beninteso, da quella legata al Mahatma Gandhi e alla figura di Bhimrao Ambedkar. E dunque alla laicità – concepita sin dall’indipendenza nel 1947 – non come separazione tra dèi e cesari, ma come eguaglianza multilaterale delle fedi.
L’Induismo dell’Hindutva non è una religione nella quale necessariamente "credere" ma neppure è una religione tra le altre. È piuttosto la matrice civilizzatrice della nazione. Il vertice cui tutte le confessioni devono guardare e il sostrato etico cui lo stato si adatta, in conformità ai suoi principi morali: dalla devozione all’appartenenza sacrale al suolo. Da un certo punto di vista, quella di oggi è una tensione tra laicità costituzionale e l’impeto di Savarkar che rivive in Modi. Un attrito che non si sana e che porta l’Hindutva ad agire dall’interno della struttura e della costituzione indiana. A modificare, emendare, e dunque riformare anziché rivoluzionare.
In tal senso, il Citizen Amendment Act del 2019 suscitò diverse manifestazioni, in particolar modo studentesche. L’attentato alla laicità dello stato faceva il paio con l’ennesimo accanimento di Modi verso la minoranza musulmana presente sul territorio. In tempi più recenti, nel 2023, vi fu un altro esempio di tensione, allorché la Lok Sabha (la Camera del Popolo del Parlamento indiano) fu disertata da parte del partito di opposizione: il capo del governo si rifiutò di discutere le violenze scoppiate in Malipur tra la minoranza cristiana Kuki e gli induisti Meitei. Come scolpito nella memoria – dieci anni dopo la distruzione della moschea Babri, nel 2002 – fu ancora l’incidente ferroviario avvenuto in Gujarat, dove perirono 58 induisti: il fatto portò alla colpevolizzazione della minoranza musulmana; da lì seguirono tre giorni di scontri, i Gujarat Riots, per un totale di oltre mille morti, 800 dei quali islamici. Eppure l’Hindutva gioca ancora una sua partita sul piano del soft power.
Non è solo l’India la piattaforma narrativa della complessa dottrina dell’Induità. Nella sfera anglofona – dove il paese vanta privilegiati rapporti commerciali – esistono diverse associazioni come Hindu Swayamsevak Sangh e Overseas Friends of BJP. Queste, orientando il dibattito locale nei paesi di accoglienza, pongono l’induismo in antitesi positiva all’Islam. In linea, peraltro, con il memorabile comizio tenuto da Modi nel 2014, dinanzi a migliaia di indo-statunitensi, a Madison Square Garden, dove si parlò di “rinascita dell’orgoglio hindu”. Hindutva non si limita quindi a influenzare la politica interna indiana. Piuttosto si estende con forza oltre i confini, reinterpretando dinamiche regionali in chiave spirituale. A tal proposito, si potrebbe individuare nell’incrocio tra politica estera e interna una forma di “nazionalismo assertivo”. Il quale, nell'ideazione dell’Akhand Bharat (Grande India), coglie un obiettivo territoriale e simbolico. Le tensioni col Pakistan, le rivendicazioni su Kashmir e Himalaya, possono così essere giustificate da interessi strategici e narrazione identitaria. E nondimeno l'India di Modi si muove sinuosamente sui binari diplomatici. Le teorie del Look East e Neighbourhood First – riemerse nell’ultimo vertice del 6 giugno scorso tra l'India e i paesi limitrofi– guardano all’Asia e all’immediato vicinato con vigilanza e spirito cooperativo, mirano alla costruzione di gasdotti, ad accordi commerciali privilegiati. E mostrano il tentativo di armonizzare l’autoaffermazione e con la necessità di riconoscimento agli occhi del consesso internazionale. Analisti come Ameya Pratap Singh vedono in tale attitudine la volontà di rafforzare l’immagine interna attraverso successi diplomatici esterni. Hindutva è così il filo teso tra l’India e la sua proiezione.
Al di là e al di qua dei confini, l’Induità riordina oggi lo spazio, ridescrive i perimetri della cittadinanza. Dalla biografia di Savarkar al governo di Modi, la reinvenzione della tradizione – con il coinvolgimento diretto del popolo – sembra chiudere il cerchio aperto nel Novecento. Ma solo in apparenza. Giacché in sottofondo, come una realtà parallela, resta il vapore di un’India pluralista. Già sfumata in luogo comune. Una nazione invecchiata giovane, che compete oggi con il murale nel parlamento di Delhi. Quello di un’altra India, datata 322 a.C.