Approfondimenti

I retroscena della trattativa per la pace

I retroscena dell’accordo tra Israele e Hamas raccontati da Stefano Marroni

Era l’una di notte del 9 ottobre, a Sharm El Sheik, quando uno dei suoi consiglieri seduti al tavolo della trattativa ha chiamato e messo in viva voce Donald Trump: “E’ un grande giorno”, ha esordito il presidente, ormai sicuro di aver portato a casa un negoziato che è difficile non definire storico. Nessuno ne era sicuro fino a solo tre ore prima, quando il negoziatore di Hamas sfuggito al blitz di Doha, Khalil Al-Hayya, ha raggiunto la villa di Sharm El Sheik del capo della sicurezza egiziana, Hassan Rashad, con la notizia del loro via libera alla prima parte dell’accordo. Meno di un’ora dopo, durante un evento a Washington, senza dire una parola Marco Rubio ha passato a Trump un bigliettino: “Samo molto vicini all’intesa. Bisogna che lei approvi al più presto un post su Truth se vogliamo essere i primi a darne l’annuncio”, gli ha scritto il segretario di Stato.

A cose fatte, con il sipario ormai calato sulla parata di leader in Egitto, il mondo si interroga ancora sulle incognite che restano da sciogliere ma intanto celebra – insieme con le piazze festose in Israele e in Palestina - la fine del massacro e la liberazione degli ultimi ostaggi. Un successo storico, per cui Donald Trump può davvero ringraziare i partner musulmani che gli hanno aperto la strada ma soprattutto i due tessitori della trama che alla fine il presidente ha potuto portare a casa, i mediatori nell’ombra che hanno messo al suo servizio l’esperienza maturata – come lui – nel mondo del mercato immobiliare: Jared Kushner e Steve Witkoff, il suo “inviato speciale” che “the Donald” spedì al Cremlino per rompere il ghiaccio con Vladimir Putin.

“C’è voluta l’imperiosa, implacabile personalità di Trump per chiudere un accordo di pace”, ha concesso sul Washington Post un osservatore tutt’altro che tenero come David Ignatius, notando che “il presidente spaccone e faccio-tutto-io ci è riuscito in un modo non da lui: ascoltando gli altri, cioè, e organizzando una coalizione che alla fine ha incluso tutte le principali nazioni arabe ed europee, così come Israele e Hamas. Joe Biden, nonostante tutti i suoi sforzi, non è riuscito a trovare un modo per farlo. Ma Trump sì: ha deciso che era tempo di pace — e che non avrebbe tollerato ulteriori tentennamenti non solo di Hamas ma anche da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu”. Un capolavoro, che a Washington anche molti democratici intestano a Kushner e Witkoff – entrambi ebrei, entrambi newyorchesi, entrambi forti di legami solidi con il mondo degli affari nelle capitali del Golfo – per la capacità di rovesciare in poco più di una settimana le sorti di una trattativa incagliata. Anche grazie all’aiuto di Tony Blair, che fin dai primi mesi del 2025 ha cominciato a lavorare con loro sui possibili piani per il dopoguerra a Gaza, e che ad agosto Kushner ha portato alla Casa Bianca per incontrare Trump.

La svolta ha iniziato a maturare a fine settembre, a margine dell’assemblea generale dell’Onu, quando il primo ministro qatarino Mohammed bin Abdulrahman Al Thani - con l’assistenza “decisiva” dietro le quinte del ministro per gli Affari strategici Ali al-Thawadi - ha organizzato una serie di faccia a faccia segreti tra Trump e i capi di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Giordania. Mettendo plasticamente davanti al presidente l’evidenza che a maggior ragione dopo l’attacco israeliano al Qatar – “il peggior errore di Bibi”, riconoscono ormai in molti a Gerusalemme - la Casa Bianca doveva agire, per non perdere i suoi più preziosi alleati nel mondo islamico.

Per andare avanti, Trump non si è rivolto al dipartimento di Stato ma alla sua coppia di negoziatori, “gente da accordi”, abituati da una vita alle “scazzottate a pugni nudi” del business immobiliare di New York, che hanno trasformato la trattativa “più in un consorzio tra contrattatori che un negoziato diplomatico”: convinti che occorresse partire da un sì di Hamas a rilascio degli ostaggi per indurre Israele a sedersi al tavolo.

Della abilità di Witkoff nel trattare, Trump si fida quasi come della sua. E dopo un periodo di freddo con il marito di sua figlia Ivanka, Kushner è tornato nel cuore del presidente, che alla fine del suo primo mandato cancellò la condanna di suo padre Charles per evasione fiscale e altri reati e nel 2025 lo ha nominato ambasciatore in Francia. Alla Casa Bianca non sfugge che agli occhi degli interlocutori arabi i legami d’affari del genero del presidente (le risorse della sua società di investimenti sono quasi interamente off shore e in larga parte provengono dai fondi sovrani di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati) e appunto il suo rapporto familiare con il Comandante in capo ne fanno un interlocutore assai più che affidabile, come nella trattativa che nel 2020 portò agli accordi di Abramo.

In due giorni di contatti telefonici, Kushner e Witkoff sono riusciti a persuadere gli arabi e Tayyip Erdogan (al tavolo delle trattative c’era fin dall’inizio il capo dei servizi di Ankara) della necessità di convincere Hamas che trattenere ancora gli ostaggi si stava trasformando “da strumento di pressione in un elemento di debolezza”. E quando finalmente l’ala politica del movimento ha fatto sapere che poteva discuterne, Kushner è saltato in macchina e dalla sua villa a nord di Miami ha raggiunto Witkoff nella sua casa all’altro capo della città. Insieme – in costante contatto con Trump – hanno chiamato Netanyahu: portate intanto a casa gli ostaggi, gli hanno detto, è “il momento di essere positivi”. Allo scattare del verde da parte di Gerusalemme, i due sono volati a Sharm El Sheik, rinforzando la squadra dei mediatori al lavoro dal 6 ottobre con gli uomini di Hamas e Israele: obiettivo, metterli alle strette.

Chi c’era, racconta che nei primissimi giorni di negoziato le cose non stavano andando bene. Che “non c'era alcuna volontà di cedere su questioni chiave”: i limiti del ritiro israeliano, il meccanismo dello scambio tra ostaggi e prigionieri, la ripresa degli aiuti a Gaza e i nomi dei palestinesi da scarcerare. Per sbloccare lo stallo, Witkoff e Kushner sono volati al Cairo, spiegando via à vis al presidente Al Sisi i termini di una possibile intesa e soprattutto sollecitare il suo aiuto per sbloccare l’impasse. Subito dopo, si sono spostati a Gerusalemme, dove la mattina dell’8 Netanyahu li ha invitati a partecipare al delicatissimo Consiglio dei ministri chiamato a dare il via alla prima fase dell’intesa: sessanta minuti di “lezione di realismo”, centrati sulla necessità di dare il via libera alla prima fase del negoziato, senza pretendere di “chiudere tutto subito”.

È l’ambiguità che per ora ha spianato la strada alla tregua, e che porta con sé tutte le ombre di un’intesa che Trump ha salutato come “la più importante degli ultimi tremila anni in Medio Oriente”. Ma proprio come tra i broker immobiliari di New York, ha ricordato Kushner ai suoi, “la contrattazione è sempre un tira e molla, e c’è sempre molto da definire prima di poter chiudere davvero un contatto. E far girare i soldi veri…”.

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