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Il fragile equilibrio iracheno

Baghdad vive una fase complessa: gli scombussolamenti interni ed esterni al Medio Oriente rischiano di intaccare una stabilità delicatissima

Nei giorni che hanno preceduto il primo attacco israeliano all’Iran, nella notte tra giovedì e venerdì 13 giugno, il Pentagono e il dipartimento di Stato avevano dato ordine di rientro negli Stati Uniti a diverso personale non indispensabile presente nelle basi e nelle sedi diplomatiche del Medio Oriente. Tra queste, la prima a essere allertata è stata quella di Baghdad. E non è un caso se la reazione iraniana contro Israele abbia coinvolto anche milizia irachena. È parte del patchwork di complessità che vive il Paese.

L’Iraq si trova in una fase di equilibrio critico, sospeso tra la prospettiva di un consolidamento interno e il rischio di una nuova ondata di instabilità, in gran parte influenzata dalle evoluzioni regionali che coinvolgono lo scontro militare tra Iran e Israele; la ricostruzione totale della Siria; lo stato delle relazioni tra Iran e Stati Uniti; i riflessi della guerra israeliana a Gaza. La tenuta del paese dipende da una fitta rete di fattori interni ed esterni, che si intersecano sul piano politico, etnico e securitario. Il contesto iracheno, già frammentato dopo anni di guerra, settarismo e interferenze esterne, ascesa e caduta del Califfato è oggi attraversato da dinamiche che richiedono una gestione multilivello e una visione strategica che tenga conto delle interconnessioni regionali e del ruolo iracheno sullo scacchiere internazionale.

L’inizio del 2025 ha reso ancora più evidente la fragilità dell’equilibrio interno, con tensioni crescenti nel Parlamento e tra i blocchi politici principali in vista delle elezioni previste per l’autunno. Il dibattito parlamentare si è fatto più polarizzato, soprattutto dopo l’approvazione di una serie di leggi controverse che hanno acuito la frattura tra comunità sciite, sunnite e curde. L’adozione di provvedimenti con forti connotazioni etnico-settarie, approvati secondo logiche transazionali, ha posto le basi per una nuova fase di competizione politica ad alta intensità, dove la ricerca del consenso elettorale rischia di aggravare ulteriormente le divisioni. L’interrogativo su possibili nuove alleanze, il ruolo potenziale di attori come il popolare (e populista) chierico Muqtada al-Sadr e la coesione della coalizione di governo si affacciano come elementi determinanti per la tenuta del sistema politico.

Parallelamente, la regione del Kurdistan rimane in una fase di stallo politico e istituzionale, con ritardi nella formazione del nuovo governo locale e negoziati in corso per la ripresa delle esportazioni petrolifere verso la Turchia. Le tensioni tra Baghdad ed Erbil, nonché tra le principali forze curde, continuano a condizionare il quadro generale, complicando ulteriormente la gestione dei territori contesi e dei dossier energetici. L’instabilità politica nel nord del paese può riflettersi negativamente sulla capacità complessiva dell’Iraq di affrontare le sfide economiche e securitarie.

Dopo il crollo del regime siriano di Assad nel dicembre 2024, la postura strategica dell’Iraq è mutata sensibilmente. L’ascesa a Damasco del presidente ad interim Ahmad al-Sharaa, figura un tempo legata ad al-Qaeda in Iraq, ha allarmato la dirigenza sciita di Baghdad, nonostante il suo distanziamento da movimenti jihadisti globali avvenuto nel corso dell’ascesa politico-militare. La debolezza del nuovo esecutivo siriano, supportato da elementi di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e dai residui di apparati governativi, preoccupa profondamente Baghdad per il rischio di infiltrazioni jihadiste e di una riattivazione delle reti sunnite radicali nelle province irachene di confine.

L’instabilità siriana pesa direttamente sulla sicurezza irachena, specialmente lungo un confine ancora poroso, attraverso cui cellule residue dello Stato islamico potrebbero rafforzare i propri assetti in Iraq. Ad oggi, non risultano incursioni significative, ma le province di Anbar, Nineveh, Diyala e Kirkuk restano vulnerabili — a maggior ragione dopo il ritorno di pubblicità delle azioni in Siria. Inoltre, il nuovo contesto potrebbe favorire il ritorno sulla scena politica di leader sciiti intransigenti, la cui precedente gestione è stata ritenuta corresponsabile dell’ascesa dell’IS a causa delle politiche anti-sunnite. Questo potrebbe alterare gli equilibri delle elezioni previste per novembre e minare la posizione del premier più moderato Mohammad Shia al-Sudani.

In questo quadro, particolare attenzione merita proprio la risposta irachena al mutato scenario siriano, che si articola su più livelli. Risposta che è possibile analizzare, tenendo però conto di potenziali evoluzioni che potrebbero seguire gli scontri irano-israeliani. Sulla Siria, diplomazia e sicurezza si muovono in tandem: visite bilaterali, incontri con al-Sharaa mediati dal Qatar e un’intensificazione del controllo di frontiera rappresentano i cardini dell’approccio adottato. L’Iraq ha rafforzato la cooperazione con il nuovo governo siriano e con gli Stati Uniti, dispiegando anche unità delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF) – coloro che sotto il coordinamento anche di Teheran combatterono l’IS lungo i confini. Inoltre, Baghdad ha sollecitato Damasco a evitare rappresaglie contro comunità alawite e sciite, promuovendo un processo politico inclusivo in Siria che protegga tutte le componenti religiose e sociali.

Altre dinamiche regionali aggravano l’incertezza. L’alleanza tra HTS e la Turchia e la maggiore influenza di Ankara sulla nuova leadership siriana destano preoccupazione nella regione curda dell’Iraq, già alle prese con le incursioni turche contro il PKK. A ciò si aggiunge l’instabilità della relazione tra Baghdad e Teheran, soprattutto in relazione all’energia. La decisione dell’amministrazione Trump di non rinnovare le deroghe alle sanzioni per i pagamenti iraniani e, al contempo, di eliminare le sanzioni contro la Siria potrebbe compromettere la fornitura energetica iraniana all’Iraq e alimentare risentimento verso Washington. L’Iraq, stretto tra due potenze rivali e vincolato alle loro dinamiche sanzionatorie, si trova in una posizione di vulnerabilità che rischia di compromettere la sua resilienza interna.

Paradossalmente, il nuovo equilibrio regionale sta inducendo anche i gruppi sciiti filo-iraniani a rivedere la propria ostilità verso la presenza americana. Il rischio rappresentato dalla Siria post-Assad sta spingendo i miliziani a tollerare una presenza statunitense prolungata, allentando anche le pressioni del governo iracheno per il loro disarmo. Anche qui, però, lo scontro militare diretto tra la Repubblica islamica, dante causa di quei gruppi, e Israele, rappresenta un precedente inedito.

Va anche valutato che la transizione verso un accordo bilaterale di cooperazione strategica tra Baghdad e Washington, pur ancora in corso, potrebbe essere rallentata per garantire maggiore sicurezza lungo i confini. Il dibattito sulla permanenza delle truppe americane si intreccia quindi con la percezione di minacce condivise e con il ruolo crescente delle forze curde del KRG come partner degli Stati Uniti in chiave anti-jihadista.

In sintesi, l’Iraq si trova in una condizione di equilibrio dinamico: la stabilità è possibile ma fragile, condizionata dalla capacità del governo di gestire un contesto regionale fluido e un tessuto interno etnico-religioso altamente sensibile. L’interdipendenza tra le crisi mediorientali e le fragilità strutturali irachene rende il paese un barometro delle tensioni regionali: ogni sussulto esterno può trasformarsi rapidamente in una crisi interna. Le scelte che Baghdad compirà nei prossimi mesi – in termini di alleanze, sicurezza, inclusione politica e diplomazia regionale – determineranno se l’Iraq riuscirà a consolidare una stabilità relativa o ricadrà in un nuovo ciclo di frammentazione e violenza come quello che ha preceduto l’attuale esecutivo.

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