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Il protagonismo sino-russo dal Sahara all’Africa Occidentale: un breve bilancio

La presenza di Russia e Cina in Africa, dal Maghreb al Sahel. Una breve analisi di Alessandro Giuli

Questione energetico-ambientale, emergenza pandemica e instabilità politica sono i tre elementi che allo stato attuale rendono permeabili l’Africa nord e sub sahariana rispetto al protagonismo del regime cinese e della Russia di Putin. È notizia di pochi giorni fa che la Repubblica popolare cinese ha deciso di donare altre 500mila dosi di vaccino anti Covid-19 Sinovac alla Tunisia, come annunciato dell’ambasciatore di Pechino a Tunisi, Zhang Jinguo. Il che avviene proprio nel momento in cui le proteste popolari contro lo stato d’eccezione proclamato a luglio da Kaïs Saïed cominciano ad attirare la preoccupazione della comunità internazionale alle prese con lo spettro di una transizione da un “regime presidenzialista” a un “presidenzialismo di regime” che dietro il (presunto) successo della diplomazia dei vaccini presenta il conto di un rischio autoritario incoraggiato dal rafforzamento delle relazioni bilaterali in materia di cooperazione scientifica, tecnologica e sanitaria.
È lo stesso sgretolamento che sul versante militare saheliano sta affrontando l’Eliseo. Nel corso di un recente colloquio telefonico con Vladimir Putin centrato sull’emergenza migratoria ai confini tra Bielorussia e Polonia, il presidente Emmanuel Macron ha nuovamente preso di petto il dossier Wagner, prefigurando “gravi conseguenze” qualora Mosca insistesse nello stanziamento dei propri mercenari a Bamako, in Mali.

Nell’anno che si avvia a concludersi la progressiva popolarità di Cina e Russia è confermata dalle stime dei maggiori istituti di rilevazione demoscopica. Da ultimo, il Barometro arabo certifica che in Tunisia l’opinione favorevole alla presenza cinese è arrivata al 59 per cento degli intervistati, raggiungendo un picco del 60 per cento in Algeria. Quanto al gradimento di Mosca e della sua strategia, le percentuali non sono dissimili in Algeria (52 per cento) e si attestano appena più in basso in Marocco e Tunisia (43 per cento); con un dettaglio interessante, invece, per quanto riguarda la Libia dove la presenza sul campo del Wagner s’inquadra in un contesto di guerra civile a intensità variabile che rende meno rilevabile e più divisiva l’immagine di Putin.

Nel complesso, questi dati assumono proporzioni rimarchevoli se paragonati alla fiducia nei confronti degli Stati Uniti: 28 per cento in Marocco, 21 per cento in Tunisia. Secondo gli ultimi sondaggi raggiungibili, in Maghreb l’attività americana è considerata ancora più una minaccia che una risorsa potenziale in termini di sviluppo economico e infrastrutturale (64 per cento in Algeria, 61 in Tunisia, 46 in Marocco). Quanto alla Francia, in prima fila nella sfera d’influenza europea in Africa, mantiene un consenso alto in Marocco (59 per cento) direttamente proporzionale alla perdurante freddezza nell’ex colonia algerina (32 per cento) le cui relazioni con Parigi paiono al momento in difficoltà.

Fin qui i dati più volatili, collegati a un sentimento popolare che da una parte si è sedimentato sulla base di occasionali controversie politiche con i partner internazionali e dall’altra obbedisce alle regole più volatili della politica interna dei singoli Stati, a cui Russia e Cina possono presentarsi come potenziali “liberatori” da antichi signoraggi con le storiche potenze coloniali.

Resta da rammentare, sia pure in forma cursoria, soprattutto alla luce delle attuali consegne globali in materia di transizione ambientale ed energetica, il più concreto ancoraggio che numerosi Stati africani hanno stabilito con la Cina attraverso il sistema dei prestiti garantiti dalla concessione di risorse naturali. Pechino vanta enormi crediti con le principali nazioni produttrici di energie fossili e terre rare a fronte d’investimenti in infrastrutture che vanno dalle strade agli ospedali passando per le ferrovie: Angola (24 miliardi in cambio di petrolio); Guinea (20 miliardi garantiti dai giacimenti di bauxite); Ghana (5,6 miliardi in bauxite, petrolio e cacao); Repubblica democratica del Congo (3 miliardi per rame e cobalto); Sudan (3 miliardi in cambio di petrolio); Congo (2,6 miliardi in cambio di petrolio). Così via, lungo la tortuosa strada di una geopolitica dell’energia, della sicurezza e della sanità che vede arrancare l’Occidente.

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